È tempo di tornare a casa, Mimì
Domenico Starnone e la sua infanzia nella casa di Via Gemito
Nel 1975, intervistata da Dario Bellezza, la scrittrice Anna Maria Ortese affermò che scrivere era come tornare a casa. Questa frase ha risuonato in me per diversi giorni, potente, graffiante, come un promemoria al quale tornavo spesso durante la giornata. Tuttora mi capita di pensarci e di chiedermi: ma cosa ha a che vedere realmente il “tornare a casa” con la scrittura?
È tracciare una linea con la penna fino a raggiungere il portone? Disegnare contorni e creare una topografia dell’abitazione? Penso di no. Penso che questa frase abbia un significato più profondo che ha a che fare con il ritrovarsi. La casa che abbiamo abitato (o continuamo ad abitare), nel bene e nel male, è stata nostro rifugio. Tra le quattro mura abbiamo covato simpatie, dispiaceri, abbiamo pianto, abbiamo sorriso, ci siamo rialzati, abbiamo cercato di vederci chiaro dietro la nebbia scura degli eventi che si susseguivano nella nostra vita. Ed ecco che la scrittura si fa percorso, disperde le briciole a terra, come fanno Hansel e Gretel nella storia dei fratelli Grimm per non perdere la strada, e ci riporta a casa, quella che abbiamo abitato o quella che abbiamo scelto nella nostra vita da adulti. E la scrittura che ci riporta a casa, ci riconsegna inevitabilmente alla vita.
Si ritorna a casa per rivedere ciò che è stato, per sentire i profumi d’estate, di borotalco, di cemento; per osservare le pareti dove in tempi remoti c’era stato un pavone dalle ampie ali colorate, poi un grande lenzuolo bianco che copriva metà del muro con uomini intenti a osservare un bambino che teneva una grossa damigiana dalla quale usciva acqua, che a sua volta andava a finire nel bicchiere di un altro uomo. Tutti a guardare, come se avessero visto un miracolo. Il miracolo era stato raggiungere quella casa, sedersi ai bordi del letto, toccare con mano il materasso, vedere che fa una forma strana, diversa da quella che faceva quando da bambini ci coricavamo esausti ma felici. Tornare a casa per scrivere.
Il romanzo, la casa
Nel suo romanzo, Domenico Starnone torna nella sua casa d’infanzia attraverso la scrittura di una storia, quella di suo padre. La casa in questione si trova a Napoli, in via Gemito, al numero 64, secondo piano di un’alta palazzina. La prima cosa che ritrova, da adulto, è la lunga ringhiera di ferro simile a un serpente che da piccolo usava per scendere fino a giù1.
Nella casa di via Gemito, assieme a Mimì il narratore, vive suo padre Federico, la madre Rosa, o Rusinè, i fratelli, e la nonna materna. La madre e la nonna sono due personaggi silenziosi, attenti, necessari. Entrambe sembrano fare da sfondo, ma in realtà reggono l’impalcatura della storia con i loro sguardi e movimenti che il narratore osserva attentamente. Alla madre, infatti, è dedicato il romanzo; la donna muore troppo presto, lasciando un vuoto non solo nei figli e nel marito, ma anche nella casa2. La nonna, invece, si spegne nel marzo del 1965, l’ultima immagine che il narratore ha di lei è quando se ne sta in cucina, intenta a tagliare il prezzemolo: di lei gli rimarrà l’odore della cucina e di «quel vegetale che sanguinava linfa verdastra sotto i colpi veloci della lama»3.
Nella casa in via Gemito, però, non vivono solo persone reali e in carne e ossa, ma anche gli spiriti dei parenti defunti, due in particolare: zia Modesta e zio Peppino. La prima era la sorella di Federico, morta a soli diciassette anni4; il secondo lo zio da parte di Rusinè che viveva a Firenze con la moglie, l’unico parente materno che Federico ammirava5. La presenza di questi due spiriti si percepisce negli armadi della casa, sulle mensole, persino a tavola mentre si sta mangiando. Anche allo specchio, a volte, mentre Mimì si osserva attentamente, gli sembra di vedere il volto riflesso di Modesta. Quella rivelazione gli mette paura: ha timore che quella donna sbuchi dal vetro e lo prenda per portarlo nell’aldilà con sé. Ovviamente, tutto ciò non succede poiché gli spiriti non abitano davvero in via Gemito, vivono solo attraverso il ricordo.
In un’intervista di tre anni fa di Teresa Ciabatti a Domenico Starnone, l’autore parla di questo fascino che nutre nei confronti dei morti - i suoi morti - fin da quando era un bambino. Lo stesso bambino che abitò in via Gemito, al numero 64. Qui riporto la risposta che ha a che vedere con la casa, molto probabilmente la stessa casa in via Gemito:
«Le case del Dopoguerra me le ricordo sempre in penombra. Le lampadine erano fioche, mancava spesso l’elettricità. Oggi direi che la fossa dei morti era l’intero appartamento» (Intervista a Domenico Starnone, 28 novembre 2021, Corriere della sera).
Il romanzo ha una struttura, che si potrebbe definire, disomogenea. A tratti vi sono delle ripetizioni, come se l’autore stesse cercando, tra i fili ingarbugliati dei ricordi, la via per giungere al racconto. Raccontare vuol dire scrivere, cioè lasciare i segni della vita, farli sopravvivere anche dopo la morte.
Starnone dà un ordine, suddividendo il romanzo in tre capitoli. E a ognuno di questi capitoli assegna tre immagini che gli consentono di sbrogliare i ricordi: il pavone, il ragazzo con l’acqua e il ballerino.
La prima immagine, quella del pavone, gli appare da bambino nella stanza dei suoi genitori, nella casa di via Gemito. Viene descritta in modo così vivido che mi pareva di vederlo anche io assieme al narratore: un pavone enorme, che muoveva le sue lisce piume colore del mare. Un’immagine bella, quasi rilassante che mi ha spinto a ricercare il significato di tale segno: il pavone è simbolo di rinascita? di bellezza? è l’annuncio della primavera? di una nuova vita? O è simbolo della passione che il padre, Federico, si portava dentro? I colori che amava mischiare tra di loro non erano gli stessi che si mischiavano nel petto del pavone?
Nella camera da letto, tra la tunalètt e la finestra coi vetri vibranti di vento (aperta, chiusa?), c’era un pavone. Il pavone era enorme. Con la testa crestata sfiorava il soffitto, ne sentivo il fruscio contro l’intonaco mentre la muoveva con lievi scatti. Aveva il petto gonfio di un azzurro violaceo come il mare quando il sole è appena tramontato. E sventagliava una ruota maestosa e occhiuta che dipingeva la stanza di tanti colori quanti mio padre ne lasciava sulla sua tavolozza in camera da pranzo, mescolati con perizia lungo la costa di paste lucide e dense (p. 124).
La seconda immagine è quella del ragazzino che versa l’acqua. Nella copertina all’edizione Einaudi si può vedere un bambino esile intento a versare l’acqua contenuta in una damigiana. Quel bambino non è altri che il narratore che, un giorno, viene chiamato dal padre a fare da modello per il suo nuovo quadro, I bevitori. Proprio da questo quadro prende forma la seconda parte del romanzo: ricordi spezzettati, passeggiate per Napoli alla ricerca di quei quadri che Federico ha dipinto durante la permanenza in via Gemito, ma soprattutto di quel medesimo quadro in particolare che gli ricordava il sudore, il dolore di stare fermo sulle ginocchia in una posa insolita e solo per compiacere quell’uomo, per non deluderlo, per assecondare la sua passione, e confermargli che sì, era sempre stata quella la sua strada.
La terza e ultima immagine del ballerino risale agli anni del trasferimento. Da via Gemito, Mimì e la sua famiglia si trasferiscono in un altro appartamento nei pressi della stazione. In quegli anni tutto cambia: Mimì si innamora di una ragazza, Nunzia, e cova di uccidere il padre. Il ballerino, che è lo zio di Nunzia, è una figura estranea alla famiglia. L’esatto opposto del padre, per questo congeniale a Mimì, tant’è che vorrebbe rinascere in un altro corpo e avere lui come genitore. O meglio, vorrebbe sentirsi libero di amarlo come si dovrebbe amare un parente di sangue, senza essere costretti ai “legami degli affetti”.
Per me, entrare nella casa di via Gemito è stato come ritornare nelle case dove ho passato buona parte della mia infanzia, ormai sciupate dal tempo: quelle delle mie due nonne. L’una abitava in una casa molto grande, che sapeva di estate tutto l’anno; l’altra, invece, in una casa piccola e buia, quando vi entravo mi sembrava di esser ritornata ai freddi inverni, quelli passati attorno al fuoco, anche se fuori c’era il sole e i bambini giocavano spensierati. La prima casa era situata in una strada aperta, vicino la chiesa; l’altra in un vicolo piccolissimo, dal quale passava poca gente, solitamente per andare a fare la spesa o raggiungere la propria casa che stava in quelle zone, da quel vicolo infatti le distanze si accorciavano.
Il padre
Mimì ritorna agli odori e alle immagini rimaste incastrate nelle pareti della casa, tra il disagio e la paura nei confronti di quel genitore alto e robusto che era il padre, Federico detto Federì, o Fdrì.
Questo personaggio, che nella quarta di copertina viene definito “indimenticabile”, si muove pesantemente tra la carta, fatica a restarvi dentro, vorrebbe fuoriuscire, straripare come un fiume in piena. L’autore, nonché il figlio, deve fare pressione per trattenerlo, quasi strappa la pagina con la sua penna e cerca di farlo aderire perfettamente ai contorni. L’obiettivo di Domenico Starnone, però, non è quello di intrappolare l’uomo reale del padre, ancora vivido nella sua memoria, bensì quello di dargli una via d’uscita, risarcirlo dalla vita che ha condotto, e aiutare anche se stesso ad accettare.
Ho segnato a matita i momenti cruciali dell’infanzia di Federico, dalla sua nascita fino al trasferimento a Reggio Calabria, per poi giungere, nuovamente, nella città di Napoli. Attraverso le vie che ho segnato, e che l’autore ripercorre oggi a distanza di tempo, ho tracciato una vera e propria mappa che ho intitolato - a margine della pagina - : “i luoghi del padre”. Tra quelli nominati ci sono: piazza Mercato, piazza del Carmine, via del Lavinaio, vico Molino, vico Zite, vico Grazie a Soprammuro.
Del tempo a Reggio Calabria Federico ricorda ogni cosa, anche se aveva appena un anno. Forse fu proprio nella città calabrese che la sua vena artistica cominciò ad affondare le proprie radici nel suo corpicino agile e scattante. Starnone scrive che il padre da bambino lasciava quel mondo di ferrovie e obblighi, nel quale viveva assieme al padre e alla madre, e si rifugiava in un altro di sua invenzione che prendeva forma solo in aperta campagna, tra il canto delle cicale e le alte spighe che lo nascondevano agli occhi dei passanti:
Per ore sperimenta il potere di dimenticare un mondo per fabbricarne un altro. Ha l’impressione - sussurrava quasi, a raccontarmelo, come se mi confidasse un segreto mai rivelato prima - di essere abitato da una folla che a suo comando gli viene fuori dalle dita. Il fiore, la rana, la serpe, la farfalla, sua madre nervosa ora sono tutti pupazzi di fango allineati accanto all’acqua che gorgoglia (p. 261).
Già all’epoca il lavoro di ferroviere gli stava stretto, forse cominciò a odiarlo dal giorno in cui il suo stesso padre, stanco del suo comportamento, lo rispedì a Napoli dove lo attendevano giorni diversi da quelli passati in terra calabrese, ma altrettanto fantasiosi e immaginari. Questi momenti mi ricordarono, in un modo o nell’altro, quelli passati sul balcone di casa mia. Al contrario di Federì io non dipingevo, ma leggevo un romanzo dopo l’altro. Ricordo che mi divertivo a guardarmi intorno, vedere la gente camminare veloce. Era bello anche sentire il silenzio delle due di pomeriggio, un’ora magica e unica per me: mi immaginavo di essere l’unica sveglia al mondo, mentre tutti gli altri stavano dormienti nei loro letti. Attraverso questo pensiero mi sentivo potente, e trovavo dentro di me qualcosa di unico. Anche Federì si incantava guardando fuori dal balcone, lontano da tutti, come se solo lui esistesse a Napoli e nel mondo.
Che luogo di meraviglie. Su quel balcone mio padre raccontava di aver allenato l’occhio per almeno due anni della sua vita, ora cercando di far passare la testa attraverso le sbarre dell’inferriata per vedere meglio, ora sedendo sui vasi di fiori per contemplare rassegnatamente la strada. Col sole e con la pioggia, tendeva a farmi credere, senza soluzione di continuità. A quel punto mi incantavo. Quella immagine di esplorativa solitudine non interrotta nemmeno dai mutamenti meteorologici durava. Mi ci perdevo come in una storia lunga di bambino dimenticato sul balcone di casa, che addosso gli corre il cielo col caldo e col freddo, e le piante gli fioriscono a lato o si sfrondano spampanandosi, e la terra gela nei recipienti di coccio, e il canarino dagli occhi bruciati gorgheggia nella gaióla dipinta, e i meloni gialli di natale maturano appesi ai lati del balcone, e intanto passa il vento di mare che Fdrì cerca di stringere nel pugno, e trascina in circolo tutte le stagioni, quelle che spandono profumi e quelle che arrossano i nasi per il freddo, quelle che bruciano la pelle e quelle che inzuppano i capelli con l’acqua dei temporali improvvisi (p. 268).
Il personaggio di Federico è un personaggio complesso, ambiguo. L’attimo prima ci troviamo a ridere assieme a lui, l’attimo dopo invece lo odiamo, vorremmo strapparlo dalla pagina, non trattenerlo, aiutarlo a scappare. Durante la sua vita di padre, scrive l’autore, ha fatto molti sbagli. E li elenca, uno a uno. È inevitabile per il lettore provare rabbia, disgusto. C’è un momento in cui persino lui, suo figlio, vorrebbe ucciderlo, verso il 1957 quando inizia a crescere e sente il suo corpo evolvere, cercare una strada diversa da quella che intraprese suo padre, vorrebbe staccarsi di dosso l’immagine di quell’uomo violento e burbero, avere un altro corpo.
Il corpo dei genitori, in questo caso del padre, è un tema che ho già riscontrato in un altro romanzo letto lo scorso anno, al quale ho anche dedicato un articolo qua sul blog; il libro in questione è L’amore molesto di Elena Ferrante. Delia, la protagonista del romanzo, dopo la morte di sua madre, decide di tornare nella terra natale di Napoli. Nella casa dove nacque rivive, come in un sogno imperfetto, l’infanzia passata assieme a quella donna che adesso le sembra un’estranea. Anche lei vorrebbe strapparsi di dosso il corpo della madre, cucire altre forme, le sue, ridisegnare il suo corpo di donna.
Un altro elemento curioso che è emerso durante la lettura di Via Gemito riguarda il lavoro della madre del narratore, Rusiné, che di lavoro fa la sarta. Nel romanzo ferrantiano, anche Amalia cuciva assieme alle vicine di casa.
Non avendo sue parole a disposizione, negli anni mi sono detto che il suo modo di pensare la morte si trovava in quella formula di sarta. Morire era un difetto. Un difetto dell’organismo, come se il corpo fosse una veste, antica metafora, che non veste alla perfezione (p. 424).
A margine di questa parte di Via Gemito ho scritto: L’amore molesto - Ferrante.
Il romanzo, nell’edizione cartonata di Einaudi, lascia un buon profumo nell’aria. La carta è fine, tant’è che temo di strapparla e cerco in tutti i modi di preservare il libro. Nel giorno di Pasquetta l’ho portato in montagna avvolto da un piccolo lenzuolo. Io ci disegno pure sui libri, ma non sopporto di vederli strappati o consumati dal vento.
Adesso poso il libro sugli scaffali della mia libreria ma ritornerò sicuramente in via Gemito. Lo farò percorrendo la strada di casa, quella della scrittura.
Sul blog potete leggere altri articoli nei quali ho scritto di case, ve li lascio qui:
- https://salsedine.substack.com/p/il-dolore-incrostato-allintonaco
- https://salsedine.substack.com/p/spazi-interiori-che-fatichiamo-ad
Qui vi lascio dei video/interviste su youtube di Domenico Starnone - ha una capacità oratoria molto rara, vi consiglio di ascoltarlo parlare:
«E poi andai in via Gemito. Mi fermai a esaminare il numero 64: lo stesso riquadro con dentro le due cifre. Ma via Gemito, in quel tratto proprio di fronte al campo sportivo, aveva preso il nome di piazza Quattro Giornate. E la piazza aveva al centro, chiuse in un recinto, le impalcature della Metrosud, segno di lavori in corso per un’altra stazione della metro. Non c’era più traccia né di campagna, né dello spazio ampio tra il palazzo e lo stadio, dove nella bella stagione i bambini della zona giocavano a pallone, correvano in bicicletta, si battevano per bande lanciandosi pietre. Il paesaggio urbano, meno male, muta come ogni altra cosa, un’ombra che fa da sfondo a ombre […]. Diedi uno sguardo al palazzo, non mi sembrò del suo vecchio colore. Ora era bianco e grigio, io invece conservavo memoria di tinte calde e luminose, ma non sapevo più quali. Ai balconi di pietra, a quelli con ringhiera non era affacciato nessuno. Le finestre del pianterreno avevano sbarre robuste. La cornice che correva intorno a tutto l’edificio, proprio sopra le aperture degli scantinati, e su cui ci arrampicavamo per affacciarci direttamente nelle case e chiamare i nostri amici, era stata cancellata forse per motivi di sicurezza […]. Ero vissuto lì, al secondo piano, dai quattro ai quattordici anni. Pausa lunga del respiro. Adesso la tromba delle scale era occupata da un ascensore, ma aveva resistito, mi sembrò, il corrimano di legno della ringhiera su cui mi mettevo a cavalcioni da bambino e scivolavo a gran velocità di piano in piano, con finto sprezzo del pericolo» (pp. 151-152).
«Solo la sera, prima di mettersi al cavalletto per buona parte della notte nella casa desolata di corso Arnaldo Lucci, Federì diventava un po’ malinconico. La moglie era ancora dappertutto, dietro le porte di casa, negli angoli in penombra, dentro l’armadio, e lui cercava con il suo consueto spreco verbale una via per acquietarla, trovandole un posto definitivo tra i nessi e i rimandi e le generali considerazioni. Se la rigirava per la testa, l’esorcizzava parlando senza sosta. Voleva ridurre la morte di lei all’idea generale della morte, al sentimento che ne aveva sempre avuto lui» (p. 429).
p. 418.
«In quegli anni i terrori si sprecavano, avevo troppe memorie recenti di brutture. E ciò che non ricordavo io direttamente, mi arrivava dalla bocca degli altri e mi feriva i nervi. Si raccontava, per esempio, che mia madre avesse pianto quella sua giovane cognata fino al punto di guastarsi il latte che mi dava. Si raccontava che Modesta le fosse rimasta aggrappata addosso, non volesse staccarsi nemmeno da morta. E in quelle storie «Modesta» suonava come un brutto nome dell’angoscia, come possibilità di morire senza crescere, tempo mozzati troppo presto e incongruamente, occhi rossi sul viso lunare del dolore. Ne parlava a quel modo la nonna Filomena, madre di mio padre, aggiungendo quadro di strazio a quadro di disperazione, ma senza nessun dettaglio, nemmeno la causa della morte, come se la figlia fosse stata travolta da acqua e vento, e non restasse che invocarne il nome da un balcone, dal davanzale di una finestra. Ne parlava a quel modo anche mia madre, sebbene raccontasse in genere col silenzio, un mezzo sorriso di rimpianto, un soprassalto dello sguardo. Da loro, o forse dalla chiacchiera mortuaria dei tarli nel cuore della notte, ho ricevuto la percezione di un respiro di ragazza dietro la tenda della camera da pranzo, la sera» (p. 52).
«Ciò che nella voce di mia nonna Filomena, nei silenzi di mia madre, pareva accaduto a vanvera, rivelava in quella di mio padre un suo lungimirante andamento che mi suggestionava. Modesta, Modesta. Le due donne, anche se in forme diverse, si disperavano perché ciò che era stato poteva - santodio - anche non essere: mia nonna infatti strillava: «Modesta mia non doveva morire»; e mia madre, ancora alla fine degli anni cinquanta, certe volte faceva calcoli a mente e diceva: «Adesso Modesta avrebbe trentadue anni»; sicché io stesso, colpito dai loro sospiri, finivo per guardare ogni cosa del mondo con una certa perplessità, sforzandomi di immaginarmi quello che c’era come se non ci fosse, o comunque disfatto e rifatto in altre forme, niente di obbligatorio sotto il sole, nemmeno il sole» (pp. 53-54).
«Fu così che, secondo me, si trasferì in via Gemito anche la figura d’aria che era ormai diventato zio Peppino. Lo considerai per anni da un lato il tutore segreto di ogni ninnolo o libro pieno di polvere e dall’altro un fantasma pericoloso. Da quel momento qualsiasi cosa comparisse per casa che avesse la capacità di impressionarmi, la sentii proveniente dalle sue mani grosse e le attribuii un caldo grumo di gioia e un gelo di tomba» (p. 172).