Spazi interiori che fatichiamo ad abitare
Il corpo in cui sono nata di Guadalupe Nettel: un'autobiografia di occhi tristi e scarafaggi silenziosi
La casa di Guadalupe è situata al quinto piano di un’alta palazzina in Città del Messico. È composta da vari mobili di legno antico, alcune stanze che danno sulla strada principale e altre sul cortile interno, e una libreria con tantissimi romanzi di vario genere - dalle biografie ai classici, dalle raccolte di poesie ai racconti.
L’appartamento si può raggiungere in due modi: o con l’ascensore, oppure servendosi di una scala di servizio arrugginita. Quest’ultima è la via più adatta a coloro che non temono il vuoto, e a quegli esseri tanto piccoli e silenziosi, gli scarafaggi.
Guadalupe, protagonista della storia -che è anche la stessa autrice-, nasce con una malattia congenita all’occhio destro. Questo particolare, che incontriamo fin dalla prima riga del romanzo, viene omesso per tutto il resto della storia e ripreso nella parte finale, quando la metamorfosi tanto agognata giunge al compimento:
«Sono nata con un neo bianco, che altri chiamano voglia, sulla cornea dell’occhio destro. Sarebbe stata una cosa del tutto irrilevante se la macchia in questione non si fosse trovata nel bel mezzo dell’iride, cioè proprio sulla pupilla, da dove la luce penetra fino al fondo del cervello.»
Come se non bastasse, a questo difetto congenito succede un’altra ‘imperfezione’: una piccola gobba invisibile incastonata tra le scapole. Nelle foto da bambina, infatti, Guadalupe guarda di traverso l’obiettivo, e ha questo vizio di inarcare la schiena mettendosi di lato, come se sentisse il bisogno di proteggersi da forze esterne. Quel suo tratto fisico infastidiva tanto la madre che, alla prima occasione, le urlava contro con voce stridula e canzonatoria: Scarafaggio! Scarafaggio!
Per questo motivo, la prima volta che la piccola lesse il romanzo di Kafka, Le Metamorfosi, decretò che il protagonista fosse simile a lei in tutto e per tutto.
Anch’io una mattina mi ero svegliata con una vita diversa, un corpo diverso, senza sapere fino in fondo in che cosa mi fossi trasformata. In nessun punto della narrazione si dice chiaramente quale insetto fosse Gregor Samsa, ma io capii quasi subito che si trattava di uno scarafaggio. Lui si era trasformato mentre io lo ero per decreto materno, se non dalla nascita.
Per tutta l’infanzia e gran parte dell’adolescenza, Guadalupe, con i suoi occhi tristi e l’aspetto di uno scarafaggio silenzioso, raggiunge casa attraverso la seconda via: quella delle scale di servizio. Da persona altamente asociale, preferisce stare ai margini anziché al centro dell’attenzione e, per evitare di incontrare gente durante il suo percorso, si trasforma in un piccolo scarafaggio che cammina quieto quieto, attaccato al muro delle case.
Da qui comincia la lunga odissea che la vede protagonista, accerchiata dai più disparati personaggi: un fratello silenzioso, un padre che scompare troppo presto, una madre che ama l’amore in modo violento, e una nonna che ha paura di lasciarsi andare.
Nello spazio interiore del suo corpo, Guadalupe accoglie poche persone, gli eletti, quelli che non hanno timore del vuoto che ognuno di noi si porta dentro. E così, come la casa al quinto piano e le scale di servizio, anche il suo corpo si trasforma pian piano in una piccola fortezza.
Mentre leggo questo romanzo autobiografico, mi trovo a navigare nei meandri della mia vita passata e, dal momento in cui ricordo poco di allora, decido di prendere una vecchia fotografia dalla grande cesta che mia madre conserva con gelosia. Nella foto, sono in una classe di pochi bambini, ma tra tutti, io sono l’unica a portare gli occhiali e ad avere lo sguardo chino e una leggera gobba incastonata dietro la schiena.
Che fossi anch’io quello scarafaggio silenzioso che si aggira tra le pagine delle storia di Guadalupe? Di certo, io non ho quel neo fastidioso che copre la cornea, ma fin da piccola porto gli occhiali che, col tempo, si sono trasformati in una parte di me; una bussola che mi aiuta a non perdermi, a non farmi venire i giramenti di testa e la nausea, e ad aiutarmi nell’impresa titanica di mettere a fuoco ciò che sta a pochi centimetri dal mio naso e distante anni luce.
Fu all’età dei tre anni che mia madre capì che nei miei occhi c’era qualcosa che non andava, decise dunque di farmi visitare da un oculista. Il più bravo della zona, come lo definì lei. Da quel momento, la mia vita fu costernata da visite oculistiche che si susseguivano le une dopo le altre e che, a volte, duravano interi pomeriggi, sottraendo buona parte del mio tempo libero.
I primi occhiali li ricordo ancora: rosa e leggermente rotondi, di Hello Kitty. Andavo all’asilo con le lenti ma non provavo vergogna, solo un forte desiderio di essere come le altre, con gli occhi sani e indipendenti. Mentre le altre bambine cominciavano a truccare le loro palpebre coi più disparati colori, io facevo fatica; ogni volta che ci provavo, l’occhiale rendeva tutto invisibile e il trucco non lo vedeva più nessuno. Fu da quel giorno che la mia vita e il modo di rapportarmi col mondo cambiarono radicalmente.
Ripensandoci, io uno scarafaggio mi sono sentita per tutta la mia infanzia-adolescenza, ma senza riuscire a esprimere ciò che avevo dentro, a dare dei margini a questa sensazione: rimanevo sempre ai bordi senza mai colorarli.
Nessuno poteva oltrepassare quello spazio ristretto che era il mio corpo, neppure i miei genitori. Ero un’outsider, come Guadalupe; quella bambina strana che preferiva tenersi in disparte, che non parlava ma scriveva. Di cosa, nessuno lo sapeva, perché nessuno mi leggeva.
Ad oggi, molte cose sono cambiate, non so ancora se la metamorfosi è avvenuta dentro di me, come lo è stato per Guadalupe. So di sentirmi più compresa rispetto a dieci anni fa, so che ormai gli occhiali -tranne in alcuni casi- non mi danno più fastidio, e so che posso contare sui libri quando mi sento fuori posto come uno scarafaggio.
«Per fortuna esistono loro» mi dico mentre chiudo l’ultima pagina de Il corpo in cui sono nata.