Una lettera d'amore ai libri e alla cultura
Il romanzo-rivelazione di Tara Westover e l'importanza dell'istruzione nella nostra vita
Sono ancora troppo piccola per comprenderlo, ma il libro che tengo sul mio banco, all’interno di una classe dalle pareti bianche, in un futuro non troppo lontano rappresenterà la mia salvezza. La maestra dai capelli grigi parla di ‘e’ con accento ed ‘e’ senza accento, e ci raccomanda di fare attenzione con questa regola grammaticale, perché negli anni ci tornerà utile. Io probabilmente non le presto ascolto perché nella verifica della settimana seguente sbaglio ogni cosa. In quel momento il mio sguardo è catturato dal libro che tengo sul banco e che ho preso in prestito dalla biblioteca della scuola, assieme ad altri compagni. Nella copertina ci sono una fata e due ragazzi, e un bosco alle loro spalle. Già mi piace: sento che in quelle pagine vive una storia potente e affascinante che mi sussurrerà al cuore e risanerà ogni cosa. Ovviamente tutto questo non lo penso in quel preciso istante; in quegli anni il mio pensiero è rivolto alle bambole, ai cerchietti rosa e alla torta di mele che mia madre mi prepara ogni volta. Non so ancora che quel libro — che mi consente di viaggiare con la fantasia, ma anche di riflettere sulla mia vita e sulle relazioni che instauro con chi mi sta attorno — segnerà l’incontro con la mia passione più grande: la letteratura.
Cinque anni fa, durante una lezione di letteratura all’università, ho conosciuto un’insegnante che spiegava con le lacrime agli occhi. Parlava della poesia come la cosa più importante del mondo e raccontava i poeti come se questi fossero suoi amici di vecchia data, che non vedeva da molto tempo ma che portava sempre nel cuore. Quel giorno ho capito che avrei voluto diventare come lei, e che se in un futuro mi fossi trovata in una classe, dall’altro lato della cattedra, avrei pianto anche io parlando dei miei autori e dei miei libri preferiti.
Oggi, però, cercherò di non piangere mentre vi parlo di uno dei libri più belli che abbia mai letto nella mia vita da lettrice: L’educazione di Tara Westover.
L’educazione di Tara Westover
Il ricordo più vivo che ho non è un ricordo. È qualcosa che immaginavo e che poi ho iniziato a ricordare come se fosse successo. Questo ricordo si è formato quando avevo cinque anni, quasi sei, da una storia che mio padre raccontava in maniera così dettagliata che io, i miei fratelli e le mie sorelle ne avevamo tratto ognuno una propria versione cinematografica, con tanto di grida e spari. (Incipit Capitolo 1, L’educazione, Tara Westover)
Lo scorso mese, per via di vari impegni e nuove strade da percorrere, ho scritto poco, ma in compenso ho letto dei libri bellissimi; tra questi, L’educazione di Tara Westover.
Quello di Westover è un romanzo rivelazione, scrive il New York Times a seguito della pubblicazione nel 2018; probabilmente perché è l’esordio di una giovane scrittrice sconosciuta, ma soprattutto perché la storia contenuta in queste trecento pagine non passa di certo inosservata; al contrario, provoca una ferita profonda nel lettore che la legge.
L’educazione è un romanzo che mi ha fatto riflettere molto. Mentre leggevo, mi interrogavo continuamente sul ruolo che la cultura ha avuto e continua ad avere nella mia vita. Mi sono tornati in mente alcuni ricordi passati a scuola e all’università: il giorno in cui sbagliai la verifica di grammatica italiana, perché pensavo al libro preso in prestito in biblioteca; le lacrime della mia professoressa mentre spiegava Federico García Lorca e la sua poesia. Solo oggi comprendo quanto quei momenti abbiano contribuito a farmi diventare la persona che sono oggi, e di come la consapevolezza matura nel tempo — così come è successo a Tara e a scrittori vissuti prima di lei:
Il passato è bello perché non ci si rende mai conto di un’emozione quando accade. Essa si espande in seguito, quindi non abbiamo emozioni complete riguardo al presente, ma solo riguardo al passato (Virginia Woolf, epigrafe del libro L’educazione).
Tara, la protagonista della storia, è la più giovane di sette figli di una famiglia mormona delle montagne dell’Idaho. Il luogo in cui vive è distante da tutto e da tutti, un posto quasi idilliaco e magico. Qui, Tara, riesce a trovare la propria indipendenza, e una sensazione di intimità e isolamento che crede di non poter trovare altrove1. Vorrebbe non allontanarsi mai da quel verde selvaggio e dalla Principessa che abita le storie raccontate dal padre e che nella sua immaginazione assume forme differenti, a seconda delle circostanze.
Tutte le storie di mio padre parlavano della nostra montagna, della nostra valle, del nostro piccolo angolo smozzicato di Idaho. Non mi disse mai cosa fare se un giorno avessi lasciato la montagna, se avessi attraversato oceani e continenti e mi fossi trovata in una terra straniera, dove non potevo più cercare la Principessa all’orizzonte. Non mi disse mai come avrei fatto a capire quand’era ora ti tornare a casa (p. 15).
Tuttavia, oltre il verde e quelle storie che le vengono raccontate, una sottile violenza si insinua nella sua vita giorno dopo giorno. Tara, così come i suoi fratelli, non ha mai frequentato la scuola; i suoi genitori le hanno impartito un’istruzione domestica fondata sui versetti della Bibbia e sul libro dei mormoni di Joseph Smith. Tara conosce l’Antico Testamento a memoria, distingue le erbe buone da quelle cattive, prepara centinaia di conserve assieme alla sua famiglia e sta sempre all’erta, convinta che la fine del mondo possa arrivare da un momento all’altro. Ma al di fuori di quel mondo, Tara non sa nulla. Non ha mai sentito parlare delle Torri Gemelle, ignora il significato della parola Olocausto e, nelle notti più buie, crede che la violenza sia l’unico modo per sopravvivere nel mondo. Viene picchiata più volte da Shawn, uno dei suoi fratelli maggiori, ma nessuno sembra farci caso. E ciò che fa più male non è tanto la violenza in sé, ma l’indifferenza che leggiamo negli occhi della madre, nelle azioni impassibili del padre. Un’indifferenza che si perpetua negli anni, ma con effetti diversi sulla vita di Tara e su quella della sua famiglia.
Ci fu un momento, quell’inverno. Ero inginocchiata sulla moquette ad ascoltare il papà che attestava la vocazione della mamma come guaritrice, quando mi mancò il respiro nel petto e mi sentii come strappata fuori da me stessa. Non vedevo più i miei genitori o il nostro salotto. Quello che vedevo era una donna adulta, con le sue idee, le sue preghiere, che non sedeva più come una bambina ai piedi di suo padre (p. 160).
Quando impara a scoprire il mondo, Tara ha poco più di quindici anni. È Natale ed è entrata da poco nell’età malinconica e preziosa dell’adolescenza. Suo fratello Tyler torna a casa per le vacanze e con sé ha un libro corposo; si intitola I miserabili e l’autore è un certo Victor Hugo. Tara decide di procurarsi una copia alla biblioteca locale, prova a leggerlo ma ne capisce poco perché all’epoca, come lei stessa dice, non sapeva ancora distinguere tra finzione e contesto reale. E niente — oltre la montagna, le conserve, le erbe — le sembra possa entrare a far parte del suo piccolo mondo.
Da quel giorno, però, per Tara ha inizio una nuova vita che non sboccia all’improvviso, ma si trasforma lentamente, passo dopo passo. All’inizio è suo fratello Tyler a modellare il suo cammino: è lui a preparare il terreno affinché Tara possa avanzare senza ostacoli. La incoraggia a lasciare la montagna e a iscriversi all’università, come ha fatto lui prima di lei.
Ci avrei messo molti anni a capire quanto gli era costato andarsene quel giorno e quant’era confuso sul suo futuro. Anche Tony e Shawn se n’erano andati, ma per fare quello che gli aveva insegnato mio padre: guidare camion, saldare, raccattare rottami. Quello di Tyler, invece, fu un salto nel vuoto. Non so perché lo fece, non lo sa nemmeno lui. Non sa spiegare da dove arrivò quella determinazione, né come riuscì a illuminare le tenebre dell’incertezza (p. 72).
Lasciare la propria casa, il guscio che per molti anni ti ha protetta dalle brutture del mondo, non è affatto semplice; richiede pazienza e forza di volontà. Il processo di consapevolezza che spinge Tara a liberarsi dal passato è molto lento e faticoso. La casa sembra volerla trattenere più a lungo possibile entro le sue quattro mura, le parole stampate sui libri si trasformano in geroglifici incomprensibili; eppure tutto quello che legge è così affascinante e così giusto che non può far finta di niente2. C’è un episodio molto importante a metà del libro, dopo l’ammissione di Tara all’università. Durante la lezione di Storia Americana, in un sala gremita di studenti, Tara chiede al professore il significato della parola ‘olocausto’, causando tra i presenti un silenzio generale che lei racconta non come un semplice zittirsi di voci, ma come un silenzio totale e violento. A seguito di questo evento, Tara comprende la sua estraneità rispetto al mondo: l’istruzione che le era stata impartita a casa dalla madre non era reale, o almeno non aveva posto in lei radici abbastanza forti e profonde da spingerla a interrogarsi su ciò che viveva al di là della montagna e del suo luogo natale3.
Tanti anni dopo, nella sua casa a Londra, dove si trasferisce per completare gli studi, Tara Westover comincia a scrivere la sua storia e poi la invia a un editore, senza pensare alle conseguenze. Comincia a scriverla con una necessità che non riesce a identificare, ripensando ai suoi genitori che non sente da un po’, ai suoi fratelli, a sua sorella. Dopo la pubblicazione rilascia diverse interviste e in ognuna di esse il suo sguardo sprigiona consapevolezza e lucidità; due armi che le sono state necessarie per scrivere questo libro. A volte i ricordi sono sbiaditi dal tempo e ha bisogno di fermarsi, ma non esita mai: è stata la cultura a salvarla in ogni momento della sua vita, e in questo romanzo c’è tutto quello che non ha mai saputo esprimere a voce. Una forma d’amore per i libri, che le sono sempre stati accanto, e per l’istruzione, quel processo lungo e a volte faticoso, che ha segnato la sua liberazione nel mondo.
Librerie visitate, libri acquistati, eventi letterari
Ad aprile sono stata a Parigi per la prima volta e ho visitato la bellissima libreria Shakespeare & Company.
Tra il mese di aprile e la prima settimana di maggio ho acquistato tre libri usati da Libraccio (che ormai è diventata la mia libreria di fiducia): 4321 di Paul Auster, Quo vadis? di Henryk Sienkiewicz e Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati.
Per chi si trova a Milano segnalo l’incontro di domani, giovedì 8 maggio, con Jón Kalman Stefánsson, scrittore islandese pubblicato in Italia da Iperborea. L’evento è gratuito ma necessita di prenotazione.
Nelle ultime settimane ho visto tre video che consiglio: A colloquio con Han Kang, autrice coreana di Atti umani, e per il progetto promosso dal Salone del Libro di Torino, Un libro tante scuole 2025, La lezione di Claudia Durastanti su “Il corpo” di Stephen King e La lezione di Silvia Avallone su “Il corpo” di Stephen King.
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Spero che maggio vi porti tante belle letture! A presto,
Domenica 💌
C’è un senso di indipendenza che accompagna la vita in montagna, una sensazione di intimità e isolamento, quasi di dominio. In quei vasti spazi puoi navigare da solo per ore, galleggiando su pini, cespugli e rocce. È una quiete che è frutto dell’immensità, che ti calma in virtù della sua stessa vastità e rende irrilevanti le questioni umane (p. 45).
Cominciai a studiare trigonometria. Quelle strane formule ed equazioni avevano qualcosa di confortante. Ero affascinata dal teorema di Pitagora e dalla sua promessa di universalità — la capacità di predire la natura di tre punti qualsiasi contenenti un angolo retto, sempre e ovunque. Quel poco che sapevo di fisica l’avevo imparato in discarica, dove il mondo materiale sembrava spesso incostante, volubile. Ecco che ora invece c’era una dottrina che permetteva di definire e fissare la misura della vita. Forse la realtà non era così mutevole. Forse la si poteva spiegare, prevedere. Forse le si poteva dare un senso (p. 152).
Poi andai dritta al laboratorio di informatica a cercare la parola “Olocausto”. Non so quanto tempo rimasi là seduta a leggere, ma a un certo punto avevo letto abbastanza. Mi appoggiai allo schienale della sedia e fissai il soffitto. Credo che fossi scioccata, ma non so se per le cose orribili che avevo appena scoperto o per la mia ignoranza (p. 188).