La mia vita immaginaria e una scrittrice avvolta dal silenzio
Fausta Cialente e il suo inverno freddissimo: una donna e un romanzo dalla voce malinconica e poetica
Due settimane fa mi trovavo su un treno di ritorno da Torino. Fuori c’era il sole e i campi erano illuminati da una luce nuova, di primavera. Vi siete mai accorti come, in treno, il paesaggio che fa da sfondo rimane per lungo tempo sotto il nostro sguardo, mentre quello in primo piano si allontana in un batter d’occhio? Ci pensavo in uno dei miei viaggi passati, ma solo adesso trovo il modo di scriverlo. Tornavo dal Salone del Libro dopo tre giorni intensi tra stand e centro città.
Il tema che quest’anno è stato assegnato alla manifestazione è stato Vita immaginaria, un omaggio alla scrittrice Natalia Ginzburg che aveva scritto di questo all’interno dei suoi libri.
E tuttavia in qualche momento abbiamo pensato che, se non avessimo avuto una vita immaginaria, non avremmo forse trovato le strade della vita creativa, o non ci sarebbe venuto in testa di cercarle. (Natalia Ginzburg)
La scrittrice ombra
La mia vita immaginaria ebbe inizio, su per giù, quando cominciai a leggere. Sarà stato all’età di dieci, undici anni. Ricordo che leggevo di fate e mondi magici, lasciando la realtà al di fuori dei miei libri. Era una vita che intrattenevo entro le quattro mura della mia stanza dove nessuno vi poteva entrare: pensavo che i libri possedessero una lingua segreta che nessun altro avrebbe potuto capire all’infuori di me.
Col tempo la mia vita immaginaria è cambiata, io sono cambiata e, di conseguenza, anche le mie letture. Alle storie di fate ho sostituito romanzi realistici, o fittizi ma con una nota di realtà, nella quale anche io, che un tempo ricercavo la fantasia per sfuggirle, potessi ritrovarmi nella vita di tutti i giorni. Quando leggo non faccio distinzione di genere, se è uomo o se è donna, mi piace leggere e basta. Ma negli ultimi anni, dopo la scuola e l’università, mi sono accorta quanto sia importante, quasi fondamentale, leggere romanzi scritti da donne.
Negli anni della mia adolescenza, complice la scuola e la paura irragionevole verso i classici, mi sono tenuta distante da questi romanzi; non conoscevo molti nomi femminili, anzi, c’è stato un momento in cui ho pensato che forse la scrittura apparteneva solo ai maschi. Ad oggi, sento un vero e proprio vuoto quando scopro una nuova autrice.
Mi sono chiesta, nel corso degli anni, se, grazie alla presenza di queste autrici ombra, la mia vita sarebbe potuta andare diversamente: sarei stata più matura, avrei usato dei termini più specifici, sarei riuscita a esprimermi più facilmente nelle conversazioni con le altre persone. Probabilmente sì. Oppure la mia vita sarebbe andata proprio come doveva andare, portandomi, lentamente, verso questa letteratura silenziosa, rimasta troppo a lungo nascosta.
Prima di qualche anno fa, non conoscevo Fausta Cialente e non avevo mai sentito parlare di lei. Non conoscevo nemmeno il suo viso. Dico questo perché solitamente, quando comincio a leggere un nuovo autore, sento il bisogno di avere davanti i suoi occhi, i suoi capelli, la sua fronte, e via dicendo. Di Cialente, ecco, non sapevo nulla. Nemmeno sul web riuscivo a trovare qualcosa che testimoniasse in parte chi era stata. Qualche sua foto c’era, certo, eppure questa cosa continuava a farmi tanta rabbia: sentire che qualcuno era esistito, e aveva vissuto, ma che non appariva più da nessuna parte. Per fortuna i suoi libri erano ancora qua, a conferirle quell’immortalità propria dei letterati; questo, in un certo senso, mi portò a pensare che Cialente non se ne fosse mai andata veramente.
Il libro che acquistai al Salone di Torino fu Un inverno freddissimo. Anche se fuori era primavera, quasi estate, e io avevo una terribile allergia dovuta al polline che volava indisturbato per le vie della città. Sono stati dei giorni felici: ho visto Torino per la prima volta e, nonostante il polline, ho amato passeggiare per i lunghi viali alberati che ricerco in ogni luogo che visito. Mi piacciono molto gli alberi, e ritrovarli in città, non solo in campagna, è ancora più bello.
Ritornata a casa, non ci pensai due volte e iniziai a leggere il romanzo di Cialente. Ero curiosa di entrare nei suoi mondi letterari, fremevo di conoscere i suoi personaggi: mi sarebbero stati simpatici? o avrei faticato a empatizzare con loro?
Il romanzo mi si presentò come una casa ben strutturata. Una casa a tre piani (non so perché proprio tre piani) che difendeva -sì, pensai proprio a questo termine durante la lettura- i personaggi, durante una delle stagioni più fredde dell’anno. La storia si svolge a Milano, nell’inverno del 1946, ma il romanzo è stato scritto da Cialente vent’anni dopo quella data, nel 1966. In quell’inverno del dopoguerra, l’autrice non si trovava a Milano, città in cui aveva vissuto per un breve periodo e che, quindi, conosceva poco bene. Il freddo che viene descritto nel romanzo, e che il lettore percepisce così bene sulla propria pelle, non fu sperimentato dall’autrice ma le era stato raccontato da qualcuno. Come lei avesse poi saputo riportarlo così bene nel suo romanzo, è un’altra storia1:
Un tenue bagliore alla curva dell’orizzonte annunciava il giorno autunnale che stava per levarsi sulla città avvolta nelle sue nebbie fluttuanti. Durante la notte esse avevano persistentemente celato le stelle nel cielo spento e chiuso, ma adesso l’orlo di luce diventava a poco a poco una striscia luminosa sempre più larga, una vaga fosforescenza che lentamente dilagava e si spandeva (Incipit di Un inverno freddissimo).
I personaggi di Un inverno freddissimo
La prima descrizione su Cialente la lessi proprio nella postfazione dell’edizione di Nottetempo, in un appunto di Rossana Ombres che, nel 1966, incontrò la scrittrice e gli altri finalisti del premio Strega di quell’anno. Ombres scrisse che Cialente aveva un viso a colori tenuissimi, come uno dei soggetti dell’artista Thomas Gainsborough; che non amava la società letteraria e che viveva in una casa situata nella campagna lombarda.
Cialente ha avuto una vita molto intensa, ha viaggiato molto, vivendo per un lungo periodo in Egitto, dove si era trasferita assieme al marito. Ma nonostante questo suo cosmopolitismo, ha sempre avuto un’indole solitaria: non le piaceva stare al centro dell’attenzione, preferiva tenersi lontana dai salotti letterari. Di certo non avrebbe amato vedere la sua faccia stampata sui libri di testo che si usano a scuola, non avrebbe voluto che i suoi romanzi venissero analizzati, ma sarebbe stata contenta di sapere che qualcuno, ad oggi, legge ancora i suoi libri.
Il silenzio che avvolge la sua figura è tremendo, e ricorda un po’ quello dei suoi personaggi e delle tre protagoniste femminili: Camilla, Alba e Lalla, la madre e le due figlie.
Camilla è una donna sola, che è stata abbandonata dal marito durante la guerra. Il suo dolore si respira tra le pagine del romanzo, soprattutto quando ricorda il tempo passato assieme a lui, in villeggiatura al Sud. La malinconia non la abbandona mai veramente: anche durante quei momenti Camilla pensa al futuro, a ciò che sarà della sua famiglia, e ha paura. Come se in cuor suo sapesse che il suo destino è ormai segnato.
Camilla ha tre figli: Alba, la maggiore, Guido, il musicista, e Lalla, la più piccola, che vorrebbe diventare una scrittrice. Assieme a loro ci sono altri personaggi, dei quali seguiamo al contempo pensieri e paure: Regina, vedova, e la figlia Nicoletta, Milena e il marito Arrigo, e infine Enzo, vicino di casa, trasferitosi dall’Egitto in Italia.
Ciò che risalta non sono loro, i personaggi, ma i pensieri e i rapporti che si instaurano tra di essi. Ogni personaggio si muove nella soffitta di Milano pensando al presente, al futuro, e rimuginando sul passato. Non tutto, però, viene detto; spesso è il lettore a dover intuire qualcosa che non c’è sulla pagina, ma che esiste. Ad esempio, il rapporto madre-figlia. Camilla e Alba sono due donne diverse; la prima dedita alla casa e quasi obbligata a mandare avanti la baracca; la seconda, invece, vorrebbe evadere da quel luogo che non la rappresenta più, volare via come una farfalla, raggiungere altre spiagge con persone diverse. Il loro rapporto non viene descritto ma viene percepito: il lettore sente che c’è qualcosa di rotto tra la madre e la propria figlia, qualcosa che non può essere aggiustato. E questo provoca tanta tristezza, che è già propria del romanzo.
La storia di Alba è quella che mi ha spezzata maggiormente. All’inizio ammetto che non mi piaceva il suo personaggio, sempre troppo infelice, troppo insoddisfatta, poi ho cominciato a comprendere il suo stato d’animo e ad avvicinarmi, piano piano, quasi a gattoni, come fanno i bambini che vogliono imparare a camminare. Ma proprio nel momento in cui stavo iniziando a comprenderla, mi è sfuggita dalle mani. Va sempre così con le cose che impariamo ad amare tardi; poi diventa impossibile farlo.
Il personaggio che invece ho sentito molto vicino a me, è stato quello di Lalla. Conoscere i suoi pensieri riguardo la scrittura e la difficoltà che si riscontra spesso nello scrivere, soprattutto quando siamo tristi e ci sentiamo svuotati e sfiatati, mi ha aiutato a conoscere anche quella parte di me che in questo periodo faceva fatica a esprimersi:
Oh, non avrebbe più osato riprendere la penna in mano né cavar fuori dal suo cassetto quel mucchio di fogli dattilografati che poco tempo prima rappresentavano ancora per lei qualcosa d’importante e vitale, da tenersi chiuso a chiave con una specie di volontà segreta (p. 224).
Il guscio protettivo
Emmanuela Carbé, nell’introduzione al romanzo, definisce la soffitta di Milano, che è il luogo dove si svolge la vicenda di Camilla e degli altri, come “un carapace che ha la funzione di schivare le minacce esterne per un periodo limitato, l’inverno”2.
La soffitta si presenta come luogo che nessuno - si pensa inizialmente - riuscirà ad abbandonare in modo definitivo. C’è qualcosa in quello spazio che tiene stretti i personaggi e, al contempo, li protegge dalla distruzione che ha lasciato la guerra. Un guscio protettivo che sembra quasi una madre che vorrebbe tenere al sicuro i propri figli e salvarli dal loro destino umano, come se la madre fosse un essere divino in grado di contrastare e vincere sul destino. Per poi rendersi conto che, in realtà, è un essere umano come tutti e che non può fare altro che guardare.
Questo fa Camilla, e questo fa la soffitta di Milano che nell’ultima parte del romanzo, la più dolorosa da leggere, si mette da parte, scompare, lasciando i personaggi nel loro dolore. Scomparendo fa spazio alla nuova stagione, la primavera, e a un paesaggio differente: non ci sono più le nuvole che avvolgono gli alti palazzi milanesi, ma c’è il verde della campagna e un azzurro timido che, col suo manto, vorrebbe abbracciare il cielo.
Com’era diverso il paesaggio visto di lassù. Il sole era alto, adesso, e si adagiava come un manto sontuoso sui campi e sui boschi che fumavano leggermente nell’aria fredda, il bianco del cielo stava diventando azzurro, la poca neve si sarebbe definitivamente sciolta e sarebbe stata l’ultima, ne era quasi certa. Il crudo inverno era sul punto di finire, lei ne usciva spaccata in due (in più pezzi, a dire il vero, non soltanto in due), ma pur sentendosi cosciente ad ogni momento della devastazione ch’esso le aveva recato, il senso insopprimibile della vita si agitava in fondo a quelle macerie di se stessa e spuntava come i germogli che aveva veduto poco prima sulle piante, qualcuno fragile e tenero, altri ruvidi e aguzzi (p. 266).
Spero che la vita di Camilla, adesso, sia un po’ più leggera e che possa camminare ed esistere sulla Terra con molta più calma dell’inverno appena passato, assieme agli altri.
Riguardo Fausta, la sua eredità non passerà di certo inosservata, anzi continuerà a piccoli passi a farsi strada nel mondo della letteratura che è sì vasto, ma tanto accogliente e saprà riconoscere quella “persona che è stata capace di faticare a lungo su quelle pagine, con tanta coscienza e tanta emozione - così a lungo. (Forse non è stato inutile)”3.
No, Fausta, non è stato inutile.
→ Qui vi lascio un video su Fausta Cialente raccontata dalla scrittrice Melania Mazzucco. Buona visione!
Il 17 giugno 1966, Rossana Ombres intervista per La Stampa i finalisti del premio Strega, tra cui Fausta Cialente. Ombres scrive a riguardo: “Quell’inverno freddissimo milanese che dà il titolo al libro e che è l’atmosfera viva dove si snoda la storia di Camilla, lei (Cialente) non l’ha patito realmente, fisicamente: “Me l’hanno raccontato - dice - e quei discorsi hanno contato per me più di un’esperienza diretta, mi hanno fatta sentire quella stagione, quella città”.
Introduzione di Emmanuela Carbé a Un inverno freddissimo, Fausta Cialente, Nottetempo, p. 7.
Ivi, pensiero di Cialente scritto sul suo diario, pp. 11-12.
ciao, Domenica! devo ammettere che questo romanzo mi attirava già molto solo dalla copertina, adesso lo segno tra quelli da recuperare assolutamente perché ne hai dipinto un quadro davvero interessante.
Di Fausta Cialente ne ho sentito parlare da Nadia Terranova durante un incontro, e da lì ho cominciato a leggere più scrittrici e a recuperare quelle semisconosciute, è diventata quasi una missione! Grazie per averne parlato con così tanta competenza e affetto :)