Anche per te è così importante l’amore, Sandi?
Dalla parte di lei, di Alba de Céspedes: “la storia di un grande amore e di un delitto”. E di una bambina che voleva scrivere
Incontrai per la prima volta Francesco Minelli a Roma, il venti ottobre del mille novecento quarantuno. Io stavo allora preparando la tesi di laurea e mio padre, da un anno, era divenuto quasi cieco a causa di una cateratta. Abitavamo in uno dei nuovi casamenti sul Lungotevere Flaminio, dove avevamo preso alloggio subito dopo la morte di mia madre.
Nell’estremo sud a ridosso delle coste calabresi, il mare è bellissimo: fiero e ostinato, dolce e violento, si fa spazio tra l’alta montagna che scende a picco sull’acqua, quasi come se la volesse ferire; in realtà l’accarezza dolcemente e lei se ne accorge pure. Nelle prime giornate afose di luglio, in compagnia del mare, ho letto Dalla parte di lei di Alba de Céspedes, un’autrice che voglio ancora leggere e approfondire. La protagonista del romanzo, Alessandra Corteggiani, è un personaggio simile al mare calabrese: ama con furore, e lascia straripare ogni emozione dal suo piccolo corpo di donna - non riuscendo a dominare le conseguenze dannose che il suo straripamento produrrà altrove (nel romanzo, anziché il mare, è il fiume Tevere che può essere identificato con la donna).
La storia si svolge a Roma (e nelle montagne abruzzesi) tra gli anni trenta e quaranta - nonché dall’instaurazione del fascismo fino allo scoppio e svolgimento della seconda guerra mondiale. In un casamento del quartiere Prati a Roma, una piccola bambina osserva il tramonto dalla finestrella di casa sua: è Alessandra, e pazientemente aspetta. Alessandra vive con sua madre, suo padre e una piccola domestica di origini sarde, Sista.
Ancora prima della sua nascita, la madre aveva concepito un altro figlio, Alessandro, morto annegato nel fiume Tevere. Alessandra racconta che specialmente sua madre, per tenere sempre accesa la memoria di quel figlioletto scomparso precocemente, decide di affidare alla secondogenita il suo stesso nome. Da quel momento in poi, la piccola sente dentro di sé un altro cuore battere all’unisono con il suo, e comincia a temere che ogni azione le venga dettata, in segreto, da quel fratello morto anni prima.
Si chiamava Alessandro e quando io nacqui, pochi mesi dopo la sua morte, mi venne imposto il nome di Alessandra per rinnovare la sua memoria e nella speranza che in me si manifestasse alcune di quelle virtù che avevano lasciato di lui un inestinguibile ricordo. Questo legame al piccolo fratello defunto pesò moltissimo sui primi anni della mia infanzia. Non riuscivo mai a liberarmene: quando mi si rimproverava era per farmi notare che avevo tradito, nonostante il mio nome, le speranza che mi erano state affidate; né si tralasciava di aggiungere che Alessandro mai avrebbe osato agire in tal modo.
La madre di Alessandra, Eleonora, è una donna bellissima, coi capelli colore del grano e gli occhi chiari, rassomigliante alle principesse dei romanzi. Eleonora vive una favola che costruisce con le sue mani giorno per giorno; una favola che, alla fine, la intrappola rendendola vittima del suo stesso sogno. Alessandra sa che quel gesto, che gli altri definiscono impulsivo, è in realtà un atto d’amore che ha reso sua madre libera dal dolore covato per anni e dal quale non è mai riuscita a sottrarsi, se non con la morte.
La smarginatura di Alessandra
Per ricordare la madre dopo la sua tragica fine, Alessandra comincia a vestirsi di nero. Sebbene il nero copra le timide forme del suo corpo ancora grezzo, essa si copre sempre più, nel tentativo di difendere la sua smarginatura che deriva sia dalla sua sensibilità, sia dal suo sconfinato bisogno d’amore.
Leggendo di Alessandra, ho subito ripensato a un altro personaggio a me caro: Lila de L’amica geniale1. Quando ho conosciuto Lila per la prima volta, devo ammettere che non l’ho amata sin da subito. Per empatizzare con lei ho dovuto sforzarmi, cercare la concentrazione come durante un esame o una gara di memoria: Lila mi sembrava una ragazza che approfittava delle debolezze altrui, e che attaccava semplicemente per il gusto di farlo. Quanto mi sbagliavo! Lila è un personaggio tanto fragile -forse più di Lenù, con la quale pensavo di avere più affinità- e proprio grazie alla sua fragilità desiderava emergere contro un mondo dominato dalla violenza e il patriarcato. È stato proprio grazie a lei che ho scoperto l’esistenza della smarginatura, e grazie a lei ho saputo dare un nome a un sentimento che fino ad allora non avevo saputo riconoscere.
Per comprendere chiaramente il significato di smarginatura, trascrivo una delle parti del quarto libro della tetralogia (senza alcuno spoiler):
Esclamò: oh Madonna, espressione che non le avevo mai sentito usare. Che c’è, le chiesi. Gridò ansimando che l’auto s’era smarginata, anche Marcello al volante si stava smarginando, la cosa e la persona zampillavano da loro stesse mescolando metallo liquido e carne.
Usò proprio smarginare. Fu in quell’occasione che ricorse per la prima volta a quel verbo, si affannò a esplicitarne il senso, voleva che capissi bene cos’era la smarginatura e quanto l’atterriva. Mi strinse ancora più forte la mano, annaspando. Disse che i contorni di cose e persone erano delicati, che si spezzavano come il filo del cotone. Mormorò che per lei era così da sempre, una cosa si smarginava e pioveva su un’altra, era tutto uno sciogliersi di materie eterogenee, un confondersi e rimescolarsi.
Esclamò che aveva dovuto sempre faticare per convincersi che la vita aveva margini robusti, perché sapeva fin da piccola che non era così - non era assolutamente così -, e perciò della loro resistenza a urti e spintoni non riusciva a fidarsi. Contrariamente a come aveva fatto fino a poco prima, prese a scandire frasi sovreccitate, abbondanti, ora impastandole con un lessico dialettale, ora attingendo alle mille letture fatte da ragazzina. Borbottò che non doveva mai distrarsi, se si distraeva le cose vere, che con loro contorsioni violente, dolorose, la terrorizzavano, prendevano il sopravvento su quelle finte che con la loro compostezza fisica e morale la calmavano, e lei sprofondava in una realtà pasticciata, collacea, senza riuscire più a dare contorni nitidi alle sensazioni.
Un’emozione tattile si scioglieva in visiva, una visiva si scioglieva in olfattiva, ah che cos’è il mondo vero, Lenù, l’abbiamo visto adesso, niente niente niente di cui si possa dire definitivamente: è così. Per cui se lei non stava attenta, se non badava ai margini, tutto se ne andava via in grumi sanguigni di mestruo, in polipi sarcomatosi, in pezzi di fibra giallastra.
Questa stessa sensazione l’ho rivista nel personaggio di Alessandra: ho visto il suo corpo sfasciarsi sotto ai miei occhi; ho sentito la sua rabbia, il suo dolore stringermi il petto fino a soffocarmi.
A pagina 35, Alessandra scrive: “In me ritrovavo lo stesso carattere che lei (la madre) aveva ereditato dalla madre: la stessa pericolosa sensibilità”. Pericolosa perché se da un lato contribuiva al suo amore per la poesia, per le lunghe soste alla finestra a osservare un tramonto, dall’altro rappresentava una colpa, un pericolo che accresceva la sua sofferenza. Questa sensibilità è complice anche dell’amore che nascerà nel suo cuore: un amore che, ancora oggi, continua a tormentarmi.
La prima forma d’amore, coglie Alessandra per caso, tra i banchi di scuola, quando la sua amica Natalia si innamora di un ragazzo più grande. Da quest’ultimo, la ragazza riceve -o pensa di ricevere- delle lettere che legge ad Alessandra col cuore e gli occhi colmi di gioia. Una volta scoperta la beffa, Alessandra decide di non dire nulla all’amica, per proteggerla, e affronta da sola il coetaneo colpevole. La rabbia che prova in quel momento la travolge, la fa fuoriuscire dai bordi, così sferra un pugno al ragazzo.
Quando informa sua madre dell’accaduto, questa non la rimprovera ma le rivolge una domanda che ho segnato e riletto più volte, e che mi è parsa la chiave di lettura del romanzo:
Anche per te è così importante l’amore, vero, Sandi?
L’amore incolmabile, indissolubile che Alessandra ricercherà per tutta la sua vita, con affanno e disperazione, riaffiora grazie a quella domanda che sarà la sua salvezza -perché l’aiuterà a riconoscere il sentimento- ma anche la sua eterna condanna.
Sentivo aprirsi dentro di me un vuoto malinconico al quale mia madre, con quella inaspettata domanda aveva dato nome e, impaurita, mi aggrappavo a lei allo stesso modo di quando ero bambina.
Un altro avvenimento, che mi pare centrale nel romanzo, ricorre nel periodo in cui Alessandra si trova nella casa della sua famiglia paterna, alla quale è stata affidata dopo la morte della madre.
La casa dei parenti si trova nell’entroterra abruzzese, tra le alte e rocciose montagne. La famiglia, infatti, conduce una vita prettamente contadina, a stretto contatto con la natura e gli animali. Una mattina, trovandosi nel pollaio, Alessandra si accorge di un gallo che sovrasta, per bellezza e maestria, le tante galline anonime. Si diceva, infatti, che questo gallo fosse stato portato dal nord e che tutti, in paese, ne parlassero. Ciò che più mi ha sorpresa è stata la minuziosità con la quale Alessandra descrive i movimenti e le azioni dell’animale, come se si fosse appostata più giorni in quel pollaio e lo avesse osservato insistentemente, e con una certa inquietudine:
Non era mai il primo ad accorrere quando si gettava in terra il granturco: subito accorrevano le galline, festose, scrollando il largo bacino come massaie affaccendate. Beccavano golosamente, leste, ma ordinate da una rispettosa solidarietà. Poi arrivava il gallo. Era alto, molto più alto di tutte le galline, e il suo passo era maestoso, grave; camminava sollevando le zampe ornate di speroni piumati. Si chinava sulle galline e, mirando al collo, le beccava d’improvviso, crudelmente, con grande maestria. Beccava l’una dopo l’altra, rapido, come se assestasse colpi di pugnale.
Il gallo, maschio fiero e indipendente, si appropria di tutto quel cibo, beccando le galline, le femmine che al suo passaggio regrediscono, come se la sua presenza le mettesse in soggezione, come se avessero paura di quell’essere molto più grosso di loro. A questo punto, dopo aver osservato la scena da fuori, Alessandra prende del grano nella mano così da attirare il gallo e, quando questi le si avvicina, lo afferra dal collo e lo strizza fino a farlo morire.
“Il fatto del gallo” rimane un fatto oscuro anche per la stessa protagonista che non riesce a spiegare il perché di quel gesto, nemmeno ai parenti.
Siamo pianeti diversi
Nella storia di Alessandra, gli uomini più che delle persone in carne e ossa, sono delle ombre all’apparenza quiete, che aspettano il momento opportuno per risvegliarsi e sferrare colpi. Quando hanno voglia di fare l’amore, prendono le donne senza alcuna pietà; quando hanno fame e non è ancora pronto, alzano la voce e, a volte, anche le mani; quando hanno una cattiva giornata al lavoro, sbattono sedie, tavoli e poltrone; quando si accorgono che una camicia non è stirata alla perfezione, si arrabbiano; e poi tengono sempre addosso il denaro che guadagnano, perché essendo il loro, decidono loro a chi darlo e quando darlo.
Le donne, invece, sono creature differenti, e proprio per questo soffrono maggiormente. Ma non tutti gli uomini, e nemmeno tutte le donne sono uguali. Zio Rodolfo, ad esempio, è un uomo buono. La nonna paterna, invece, è esattamente l’opposto della madre Eleonora: una donna robusta, alta, tutta d’un pezzo che non si lascia intimorire. Ciò che rimane innegabile è il fatto che gli uomini e le donne hanno delle fattezze e dei modi di fare differenti, e proprio per questo, questi due mondi non potranno mai capirsi appieno:
Gli uomini non hanno, come noi tante sottili ragioni per essere infelici. Si adattano, gli uomini: sono fortunati. […] Non è colpa loro. Sono due pianeti diversi, i nostri; e ognuno gira sul proprio asse, fatalmente. Vi sono alcuni momenti rapidi d’incontro; attimi forse. Dopo, ognuno ritorna a chiudersi nella propria solitudine.
L’unica cosa che può salvare le donne è l’amore buono, ma Alessandra conosce solo quello che fa male e che porta suo padre ad accanirsi violentemente contro sua madre ogni volta che lei torna dalle lezioni di musica; conosce quello devoto che la nonna le rinfaccia sempre; un amore che deve essere nascosto a tutti i costi, come quello che Lydia prova per un uomo sposato, e che poi passerà nelle vene di sua figlia Fulvia. L’amore non è facile trovarlo; a volte si aspetta tutta la vita senza incontrarlo mai:
Avrei voluto riposarmi in lui, affidare a lui il mio peso d’incertezza e di dubbi, lasciarmi consolare. Ma egli mi precedette e non fu possibile. Non fu possibile mai, mai, essere debole. Dio mio, neppure per un attimo. Fin da allora, dovetti imparare ad essere la spalla che sostiene, la mano che regge, la voce che consola. Solamente qui, oggi, ho trovato riposo, eppure temevo che non avrei potuto riposare mai.
È nel 1941 che Alessandra conosce Francesco Minelli, un giovane professore. Ma, ecco, questa è un’altra storia che non sta a me raccontare. Sta a voi, lettori, scoprire.
«E invece sì, continuerai. Pobrecita»
La storia di un grande amore e di un delitto, scriveva Alba de Céspedes nella prefazione all’edizione del 1994, che non fu pubblicata nel romanzo poiché giunse in redazione quando il libro era già in stampa2. Un amore in cui credeva non solo Alessandra, ma anche la stessa Alba (“In quell’epoca io credevo assolutamente all’eternità dell’amore”), e un delitto che deriva dall’illusione di quello stesso amore. L’amore per un uomo e l’amore per la letteratura che, all’epoca del fascismo e anche nel dopoguerra, faticò terribilmente per riuscire a sopravvivere. Nel cuore di Alba, quest’ultimo amore fu eterno, anche in quegli anni disperati, anche quando cominciò a scrivere la storia di Alessandra Corteggiani e di tutte le donne che aveva conosciuto. Lo fece perché il desiderio di scrivere era così forte da superare il dolore e la sofferenza. E perché la letteratura le riportava alla mente quel piccolo ricordo, di tanti anni prima, che l’aveva consacrata scrittrice:
Quando mio padre scoprì i miei primi componimenti poetici, avevo solo sei anni. «Papà, mi dispiace, prometto che non lo farò più!» gli dissi.
«E invece sì, continuerai. Pobrecita» mi rispose lui, con un timido sorriso.
Lo stesso mi era capitato lo scorso anno mentre, sempre sul bagnasciuga, leggevo di Goliarda Sapienza e della sua Modesta.
Lo scritto uscì sul Corriere della Sera, il 20 ottobre 1994.