Quando comincio a scrivere del mio paese natale, ogni parola comincia a disfarsi, come se qualcosa mi impedisse di parlarne. Comincio a scrivere degli alberi, e subito vedo gli alberi cadere uno a uno; cerco di inquadrare con il pensiero il viso di un mio conoscente, e subito quel viso si trasforma in una colla che si scioglie lentamente. Non sono ancora pronta, mi dico, e ci rinuncio.
Nei libri che leggo, poi, cerco continuamente i luoghi. Assimilo le descrizioni e tento di trovare anche solo un particolare che ricordi il mio paese. Di particolare ce ne sono tanti, ma mai specifici. Allora dico a me stessa che, forse, il mio paese deve rimanere avvolto nel segreto. E che non deve esistere in letteratura.
Una sera d’estate, mi trovavo sul balcone della mia stanza. Osservando il cielo, mi accorsi di una lunga scia luminosa lasciata da un aereo che, lentamente, si disperdeva nel cielo scolorito. Proprio in quel momento, nella mia testa, si materializzò un ricordo d’infanzia, di quando osservavo il cielo giorno e notte, notte e giorno, senza mai stancarmi. Anche a quel tempo, la scia di un aereo apparve all’improvviso e ciò mi sembrò un evento unico, in quanto non pensavo che gli aerei potessero passare da questo minuscolo paese che abitavo. Attraverso questo semplice ricordo, il mio paese cominciò a prendere forma sulla carta, silenzioso e ancora timido, quasi preoccupato di disturbare la quiete della pagina bianca.
Quando cominciai a leggere il primo romanzo breve scritto da Natalia Ginzburg nel 1941, La strada che va in città, mi parve un romanzo come tanti altri; poi, però, concentrandomi di più sulle parole, sentii qualcosa di diverso. Era una sensazione che giaceva in me da tanto tempo, e alla quale non avevo mai saputo dare voce. Una sorta di verità sulla mia vita al paese che era sempre stata una condanna e, al contempo, una benedizione; questo, soprattutto, nel corso dei miei anni passati.
Il personaggio che Ginzburg crea - un po’ mischiando alcuni suoi tratti, un po’ aiutandosi dalla storia di una sua conoscente - è una ragazzina di diciassette anni, di nome Delia1. Il primo aspetto a colpirmi fu proprio l’età. Delia è una ragazza a metà, tra la vita di bambina e la vita adulta. Un’età limbo dove ancora le cose attorno sono sfocate e prive di contorni. Un’età in cui si rischia di inciampare spesso, e sembra che la nostra vita debba finire da un momento all’altro.
Il romanzo breve di Pizzoli
Quando Ginzburg iniziò a pensare a questa storia, si trovava in un piccolo paese abruzzese, dove si era trasferita assieme al marito e ai figli negli anni della guerra. Pizzoli, il paesino, era un luogo di confino dove Leone Ginzburg, assieme alla sua famiglia, fu costretto a restarvi per tre anni.
Questo luogo sperduto era abitato perlopiù da donne con addosso uno scialle nero e uomini dal viso stanco che ogni giorno, poco prima dell’alba, si recavano nei campi a groppa di un asinello vecchio e stanco.
Nella prefazione al suo libro, Ginzburg parla di un sentimento contrastante nei confronti di quel paese. Lei veniva da Torino, una grande città industriale che non le era mai piaciuta veramente. Tuttavia, durante gli anni passati a Pizzoli sentiva nostalgia della sua città, e dei suoni dei tram che passavano continuamente per le strade2. A Pizzoli gli unici suoni provenivano dalla campagna, e più che suoni erano urla, grida, o saluti amichevoli di uomini che si incrociavano per strada.
Nel 1941, l’autrice scrisse prima un racconto e poi un romanzo breve. Il primo lo compose in primavera e lo intitolò Mio marito; il secondo, invece, cominciò a scriverlo nel mese di settembre e, anche se non viene specificato, la storia stessa sembra essere ambientata in quel periodo. Inizialmente il racconto non ebbe un titolo; fu il marito Leone a intitolarlo La strada che va in città, poco prima che fosse pubblicato.
La strada
Giorno dopo giorno, Delia percorre una stradina che dalla campagna dove abita, la porta in città.
Nei tempi della mia adolescenza, ricordo con malinconica rassegnazione i giorni passati in casa, nel mio paese, perché tutto era così lontano, e irraggiungibile. Se mi capitava di uscire e arrivare in città, il tempo cominciava a scorrere così velocemente che già si arrivava a sera e si doveva ritornare a casa. Per tutto il viaggio di ritorno, e soprattutto quando varcavo la soglia di casa, mi sentivo un nodo allo stomaco, e mi capitava di ripensare ai volti sconosciuti di persone che avevo intravisto in città. Sentivo di invidiarli, perché loro avevano l’opportunità di uscire e ritrovarsi tra le strade della città, e quindi di partecipare alle feste, di meravigliarsi, e soprattutto di rientrare all’ora che preferivano. Io, invece, avendo un orario da rispettare, dovevo lasciare la città che cominciava a sfumare sotto ai miei occhi. Da quel momento in poi, potevo solo immaginarla.
Un’altra cosa che mal sopportavo del mio paese era il buio che lo avvolgeva. Mentre in città, soprattutto in estate, il sole tramontava ben oltre l’ora di cena, nel mio paese il buio giungeva così presto e spesso mi capitava di pensare che, dopo un certo orario, esso diventava invisibile e nessuno poteva raggiungerlo. La costrizione di dovervi fare ritorno entro un certo orario faceva crescere dentro di me questo presentimento. Difatti, quando mi trovavo in giro, in città, controllavo spesso l’ora, e a ogni momento che passava sentivo l’urgenza di lasciare ciò che stavo facendo e rifugiarmi lassù, tra i monti. Oltre la linea che separava città e paese.
Natalia Ginzburg per dare voce a Delia e ai personaggi del suo romanzo, si affida ai sentimenti che provò lei stessa durante gli anni a Pizzoli, ma anche osservando la gente del paese che imparò a conoscere dai semplici movimenti e gesti:
I miei personaggi erano la gente del paese, che vedevo dalle finestre e incontravo sui sentirei. Non chiamati e non richiesti eran venuti nella mia storia: e alcuni li avevo subito riconosciuti, altri li riconobbi soltanto dopo che ebbi finito di scrivere. Ma in loro si mescolavano - anch’essi non chiamati - i miei amici e i miei più stretti parenti.
La strada che Delia, e probabilmente anche la stessa autrice, percorse in quei giorni spensierati, di fine estate, era per l’appunto una strada di campagna sterrata, con ciottoli di pietre sparsi qua e là. Una strada che appariva infinita, tanto era distante dalla città; o forse era proprio l’attesa, la voglia di giungere che la rendeva così lunga e interminabile. Ai lati della strada, vi erano dei timidi ciuffi d’erba che a malapena si riuscivano a intravedere. Di sicuro Delia non se n’era mai accorta, poiché tanta era l’emozione di raggiungere la città che tutto attorno a lei svaniva. Quella strada, però, era molto importante, perché era l’unico modo di evadere dalla campagna, e l’unico modo per vivere seriamente. In campagna viveva con la sua famiglia, in una piccola casa dove la sera veniva acceso il grammofono e tutti ascoltavano la musica. Non era bello vivere lì, era noioso per chi comincia ad apprestarsi alla vita vera e ne ha abbastanza di uno spazio chiuso che dà sui campi. La vita vera era in città, dove si aveva la possibilità di fare tutto ciò che in campagna era impossibile fare.
Una casa con scale e piani, e il fumo che esce fuori dal camino
La strada che nasce dalla pagina bianca libera Natalia Ginzburg verso i romanzi; dato che, fino a quel momento, aveva scritto solo racconti. La sua paura, come scrisse più volte nei suoi diari, nelle lettere, e nelle prefazioni ai suoi libri, era di non riuscire a scrivere più di dieci pagine. In una lettera a Elsa Morante, contenuta nell’epistolario L’amata. Lettere di e a Elsa Morante, scrisse: «(Ho) voglia di provare anch’io a costruire una casa con scale e piani e il fumo che esce fuori dal camino».
Questa casa, con scale e piani e un camino, non era altro che il romanzo, con una sua struttura ben definita, dei personaggi ben caratterizzati, e una storia che si legge senza annoiare il lettore o fargli distogliere lo sguardo dal libro.
Ne La strada che va in città c’è una casa con tante stanze, ci sono dei personaggi, e c’è anche una strada. Ma soprattutto, ci sono dei sentimenti veri e reali che ognuno di questi personaggi prova per sé e per gli altri. Quel grosso gomitolo che era nato in Ginzburg molto tempo prima, e che non era mai riuscita a srotolare sulla pagina, si sciolse nel momento in cui la strada, i visi, la casa si ricomponevano nella sua mente. Non servirono tanti concetti, non fu necessario conoscere questo e quello, bastava lo sguardo e la penna. Bastava scrivere di ciò che conosciamo, di ciò che amiamo, e poi renderlo una storia.
Pensai che questo significava scrivere non per caso. Scrivere per caso era lasciarsi andare al gioco della pura osservazione e invenzione, che si muove fuori di noi, cogliendo a caso fra esseri, luoghi e cose a noi indifferenti. Scrivere non per caso era dire soltanto di quello che amiamo. La memoria è amorosa e non è mai casuale. Essa affonda le radici nella nostra stessa vita, e perciò la sua scelta non è mai casuale, ma sempre appassionata e imperiosa.
Dopo aver letto questo romanzo, mi chiedo cosa avrebbe detto e scritto Natalia Ginzburg sul mio paese, se l’avesse abitato.
All'inizio del mio articolo, parlo di un breve racconto che mi è venuto in mente dopo aver visto la scia di un aereo, nel cielo del mio paese. Riporto una parte qui di seguito:
«Da bambina mi emozionavo nel vedere un aereo passare nel cielo del mio paese (perché per me c'erano tanti cieli a seconda delle città), e mi piaceva pensare che nonostante il mio paese fosse un luogo sperduto, gli aerei passassero anche per di qui. Era un pensiero acerbo, partorito da una mente bambina, ma all'epoca mi dava un senso di sollievo credere così. Mi piaceva, inoltre, immaginare gli sguardi dei passeggeri rivolti verso giù, pronti a individuare la mia posizione tra tutte le case e i comignoli accesi del paese, e vedere le mie braccine tese verso l'alto, come a voler acciuffare l'aereo.
Se poi l'aereo passava d'inverno, la mia gioia cresceva sempre di più perché sentivo che, in una stagione spenta come era l'inverno in questo luogo, c'era qualcuno che si ricordava di noi e del nostro paese.»
La ragazza che dice «io» era una ragazza che incontravo sempre su quei sentieri. La casa era la sua casa e la madre era sua madre. Ma in parte era anche una mia antica compagna di scuola, che non rivedevo da anni. E in parte era anche, in qualche modo, oscuro e confuso, me stessa (p. 12).
Quel paese lo amavo e lo detestavo. Avevo sempre una nostalgia pungente di Torino, città dov’ero cresciuta e che m’era sempre parsa stupida e piatta, e che ora vedevo bellissima nel ricordo, con i larghi viali dove i tram passavano dondolando e scampanellando, e dove quell’acuto grido gutturale, amato e detestato, non si udiva più (pp. 10-11).
Cara Domenica, come sai abbiamo in comune una passione profonda per la scrittura di Natalia Ginzburg e, a quanto pare, entrambe cerchiamo in ciò che leggiamo i luoghi e tutto ciò che ruota attorno ad essi. Il concetti di appartenenza, di radici, di identità e soprattutto di paese sono preziosissimi: con la tua sensibilità hai saputo descriverne bene la bellezza.
È sempre bello leggerti, questa volta però ho empatizzato con tutto ciò che hai scritto: grazie.
Mi ricorda un po' quella frase famosa e bellissima di Pavese nella Luna e i falò: "Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti".