La mia vita nella città marina
"Il porto di Toledo" di Anna Maria Ortese: un romanzo di sogni, d'amore e di mare
La voce narrante di questo romanzo ha tanti nomi, Dasa, Damasa, Figuera, ma io la chiamerò “Toledana”1 perché mi piace il suono che rievoca questo nome bizzarro e inusuale, e mi piace il fatto che richiami il luogo in cui è vissuta la protagonista (come scrivevo in un altro articolo, mi affascinano i romanzi che parlano degli anni della giovinezza, e ancora di più gli scrittori che sanno dare voce a un’età ch’è forse la più oscura, ma al contempo tanto attraente).
Di Toledana non conosco la forma del viso e delle labbra, né il colore dei capelli o della carnagione. Durante la lettura l’ho immaginata sempre bambina, con i capelli colore del mare come le sirene, con la coda al posto delle gambe, perché tutto mi è sembrata fuorché un essere dalle sembianze umane. È stato il suo sguardo a trafiggermi, e la sua incontrollabile immaginazione che, per tutto il romanzo, sguazza alla ricerca di un approdo che forse non riuscirà mai a trovare. Si sente strana, Toledana, per via dei tanti pensieri che le affollano la mente. Sente di essere l’unica al mondo a non trovare pace, per questo cerca di riempire il suo vuoto come meglio può: con la compagnia dei libri e della scrittura.
Con gli occhi sognanti ma timorosi del futuro, Toledana esce di casa e va incontro al piccolo barrio affacciato sul mare, a volte illuminato e ferito dai raggi del sole, a volte oscuro, impaurito dalle onde del mare e del vento. Non si conosce l’esatta posizione geografica ma solo il suo nome, Toledo. Un nome che rievoca la vecchia città spagnola circondata da alte mura e protagonista di storie medievali; terra nella quale giunsero popoli arabi e cristiani, divisi da una linea immaginaria ma uniti dalla bellezza delle sue strade.
Anche la Toledo trasfigurata è circondata da alte mura e, sebbene i vicoli siano stretti e si possono percorrere uno per volta, ogni sera al tramonto si può ammirare l’esplodere di colori e il sole che, silenzioso, se ne va oltre il mare.
Toledana è innamorata di questo luogo, vorrebbe non lasciarlo mai; al contempo, però, osserva l’orizzonte alla ricerca di risposte che paiono stare altrove.
Anna Maria Ortese: la scrittrice marina
Anna Maria Ortese nasce a Roma, nel giugno del 1914. La sua famiglia vive in povertà, per questo è costretta a rinunciare agli studi e alla sua formazione scolastica. Nella sua casa, però, non mancano i libri. Anna Maria li divora uno dopo l’altro, non si lascia sfuggire neanche una virgola; va alla ricerca di termini astrusi e sconosciuti, trascrivendoli poi su un quaderno azzurro. Non si arrende all’ordine imposto: si nutre di libri come la gente si nutre di cibo, e questo le consente di colmare la lacuna sofferta della conoscenza che le è stata strappata violentemente. Dopo aver letto quasi tutti i libri presenti in casa sua, inizia a scrivere. In vita sua non ha mai scritto e ha paura di farlo, si sente in soggezione dinanzi alla penna come se essa fosse un dio crudele. La tiene tra le dita tremanti e le sembra di commettere un sacrilegio contro chi, invece, ha studiato e ha diritto a ottenere premi e meriti. Ma a lei i premi non interessano affatto: a lei importa scrivere dei libri, come quelli che ha letto e che adesso riposano sugli scaffali della libreria.
Nel 1928 Ortese giunge a Napoli (terra d’origine della madre) assieme alla sua famiglia. Ha solo quattordici anni (un anno più grande della protagonista del suo romanzo) e della vita sa poco o niente, ma ha con sé i suoi libri e, cosa più importante, la sua penna2.
Napoli è circondata dal mare. Osservando questa immensa distesa, la donna scorge un compagno di vita che non la tradirà mai e che l’aspetterà sempre. Lo troverà sempre lì, quieto e in tempesta, docile e burrascoso. Il mare, dunque, diviene suo caro amico per tutta la gioventù, o almeno fino al 1933. In quell’anno Anna Maria perse il fratello Manuele, marinaio, morto al largo dell’isola di Martinica. Nel 1937 muore anche Antonio, l’altro fratello, al largo delle coste dell’Albania. Queste due tragedie vengono modellate dalla mente ancora bambina di Anna Maria come dei tradimenti da parte di quel mare che le era sempre apparso leale. I due fratelli saranno incarnati da due personaggi nel romanzo, Rassa e Albe, entrambi marinai morti in mare.
Anne Hurdle
Fin dall’inizio questo libro è stato dedicato a Anne. L’ho scritto con Anne. Anne è stata sempre con me. Fu, dal mondo, derubata della sua piccola vita. Bisognava restituirle qualcosa, una forma di giustizia, anche se lei non rispondeva più alle voci del mondo. Pensai, forse solo sentii, che bisognava starle vicino, portare il suo carico. Come? Un reato - anche per me- di aggiunta e mutamento era indispensabile. Il luogo non poteva essere che quello dei libri (p. 13).
Il romanzo di Ortese è preceduto da una premessa, seguìta da una dedica: a Anne Hurdle.
La donna, come si legge nella premessa, è una giovane ragazza vissuta nel Settecento, a Londra. All’età di ventitré anni viene condannata a seguito di un grave reato. Conoscendo la sua colpa, non si difese al processo ma seguitò nel suo silenzio. Morì qualche giorno dopo, all’interno della sua cella.
Ortese conobbe la storia di Anne grazie ai Diari di Benjamin Constant. Difatti, sul web le informazioni di questa ragazza sono quasi inesistenti. Se si scrive il suo nome, si viene riportati direttamente al romanzo di Ortese, nulla più. Chi era, dunque, Anne Hurdle? Qual era stata la sua colpa effettiva?
Anne rischiava di finire nell’oblio, di venire dimenticata, di non avere una storia. Questo spaventò Ortese, mettendola in guardia, e per questo decise di affidarsi alla letteratura e dare vita ad Anne che è stata fonte di ispirazione per il suo romanzo.
Tuttavia, il lettore che legge Il porto di Toledo non mancherà di notare delle forti analogie con la biografia di Ortese. Toledana dunque non è solo Anne: è anche Anna Maria e tutte quelle donne che non hanno avuto una storia, che sono state costrette dalla vita a piegarsi e lasciare questo mondo in silenzio.
Toledo, la città circondata dal mare
Nell’ora del tramonto procedeva questo serpe d’incanto, tutto anelli d’oro e lingue di fiamma, verso il molo, dove avveniva l’imbarco. Ma anche sotto il nostro balcone montava la gente, e tutta l’acqua era agitata, e si udivano risa e vociare confuso […]. La santa flotta vagava mesta e scintillante di ceri rosei sul mare, tutta fiori e stendardi multicolori e canti nella chiarezza lunare; e da laggiù tale scena era certo purissima, vedendosi tutto il nostro barrio pezzente e interinato splendere di cupole rosse o bianche sul cielo d’oro, e torri campanarie con le bocche aperte, e i balconi delle case portuali pendere fioriti d’erba e di donne (pp. 184-185).
Da Toledo partono tantissime navi, partono per non tornare più. Toledana le vede partire, qualcuno dice vadano in America, la terra promessa, alla quale anche lei vorrebbe approdare. Altri affermano che vanno a cercare la morte, perché il mare è inganno e non si fa scrupoli. All’interno del romanzo, sono molte le descrizioni della città. Toledo appare distante e incantata, poetica e sognante. A volte sembra non esistere davvero, essere un’immaginazione puerile di Toledana, poi però si ricompone mano a mano, e a chi legge sembra di averci vissuto veramente. Toledana scrive anche della sua casa, il luogo in cui, per buona parte della storia, si rifugia per scrivere:
Questo era una catapecchia, sita al quinto piano di una casa del porto, nella città bassa, detta casa apasa, o marine. Vi si accedeva da scala interminabile. A destra una porta a vetri colorati, gialli e amaranto, menava in un andito buio, da questi vetri un po’ rischiarato. Da qui, ancora a destra, la casa finiva, mentre dal fondo si entrava in cucina, e a sinistra, movendo un’altra portici, che era invece a vetri chiari, si entrava nello studio, o despacho. Questa casa era poi, quando ci entravate, una specie di rettangolo, era una doppia fila di stanze, o minimi vani: sei in tutto. Dalla prima, molto abbandonata, si entrava nella seconda, che era despacho, e da questa nella stanza degli Apo. Qui era un balconcello di ferro nero, stretto e assai fiorito di garofani e gerani principalmente, e affacciava sull’ardente via del Pilar. La stanza subito a destra era la stanza d’Angolo, con due finestre, una sul Pilar (e l’orizzonte), l’altra sulla Rua Ahorcados. Accanto, era la stanza Rossa, stretta e lunga, che serviva da dormire e anche da mangiare, e ancora accanto a questa era la cucina. Abbuiata da un tramezzo, tale cucina, nella parte terminale, dov’era più luce, diventava gabinetto; conteneva poi ceste e tini. La vasca era rappresentata da una tinozza per il bucato. Sotto la finestra era il lavandino, e questa finestra (sulla Rua Ahorcados) dominava a destra il cinereo orizzonte di case lerce e buie, dominato a sua volta dalla Collina, dominata a sua volta dal Castello. E tutto questo paesaggio solo qualche volta lo vidi azzurro, di un intenso azzurro che straziava; per lo più era cinereo, era l’inverno (p. 24).
Così come la città, anche la chiesa è luogo importante per Toledana e i compaesani, luogo di fascino e meraviglia. Toledana vi si reca spesso nel corso della storia ad ammirare le navate, percorrere il lungo corridoio fino all’altare, restando però estranea ai riti e a quel Dio in cui tutti credono:
Era mio scopo sperimentare la vita, che pure temevo, e conoscere in tutto e per tutto la sostanza della terra e dei cieli, e l’Altissimo (sempre tramite la chiesa del Papa) me lo vietava. Come non ribellarsi? M. Ama sosteneva che conseguenza di questa ribellione sarebbe stato l’inferno. Ne sapevo, su questo luogo invisibile, attraverso le descrizioni di Apa e anche della Montero, più di quanto sapessi della Nuova Toledo e di me stessa. Soffersi perciò a lungo timori e terrori indicibili, immaginando e addirittura provando questo orrore della carne bruciata (se fossi morta ora), del viso distrutto dalle fiamme, della privazione, in tale stato, della pioggia e la buona aria, soprattutto delle grandi corse intorno ai colli, e poi delle mie immagini (esempio, la tristezza del giardino e la sua bontà, l’affanno della nuvola porporina), che volevo esprimere (p. 31).
La scrittura o Espressività
Da bambina scrivevo rinchiusa nella mia cameretta. In realtà lo faccio tuttora. Quando scrivo e c’è qualcuno accanto a me sento di non riuscire a dire tutto ciò che vorrei dire, di aver bisogno di solitudine, quella che mi aiuta a tornare in me, nel mio corpo, dopo una lunga giornata di impegni e scadenze. Una solitudine che mi porta a studiarmi da cima a fondo, osservare le mie mani, il mio viso, i tratti della mia pelle, vedere se sono cambiata da un giorno all’altro, se invece sono sempre la stessa. È la scrittura a svelarmi. Nella mia vita è sempre andata così: la scrittura mi disfa, la scrittura mi compone, la scrittura mi svela.
Toledana si interroga spesso sull’atto della scrittura: un lungo processo che lei definisce dell’Espressività, e che implica cuore e mente. Parla di questa espressività come di una donna che la prende per mano e la aiuta ad attraversare il ponte che la allontana da sé nei momenti di difficoltà3.
Si deve conoscere per scrivere: ci si deve sedere alla scrivania davanti al foglio bianco e la penna in mano possedendo già una grande conoscenza, non del mondo ma di se stessi e della propria interiorità. Mi piace quando gli autori che leggo - e anche i loro personaggi - si interrogano sulla scrittura, la letteratura e ciò che scaturisce dalla parola scritta. Mi piace perché solo attraverso questi dubbi posso entrare meglio nei loro romanzi ed esser parte delle loro storie.
Il patto segreto tra Ortese, Morante e Ramondino
Nelle opere che leggo mi piace anche ricercare fili nascosti, lasciandomi traportare dagli accostamenti letterari. Nelle pagine di Ortese mi è sembrato di scorgere due grandi (e per me importanti) autrici del Novecento: Elsa Morante e Fabrizia Ramondino. Il porto di Toledo sembra richiamare i rispettivi romanzi d’esordio delle due autrici: Menzogna e sortilegio e Althénopis.
In un suo articolo, uscito tre anni fa sul «Corriere del Mezzogiorno», dal titolo Tre donne e un mistero (napoletano), Goffredo Fofi ricorda l’incontro tra le tre scrittrici e scrive: “Fui io a farle (a Fabrizia) conoscere Elsa, e lei a farmi conoscere Anna”.
Come Toledana, Elisa (in Menzogna e sortilegio) dà inizio alle sue storie famigliari nella sua camera. Dopo la morte di Rosaria, sua madre adottiva, decide di segregarsi come un frate durante un religioso ritiro, e iniziare a scrivere. Definisce il romanzo che leggiamo, “le sue memorie”, e afferma che solo attraverso la scrittura può liberare gli spiriti dei suoi avi che sono rimasti incatenati alla sua stanza. Toledana scopre la scrittura all’interno della sua camera all’età di tredici anni, solo dopo aver imparato a leggere. Lo fa innanzitutto per sfuggire alla solitudine, e poi per ricordare ciò che è stato della sua vita passata. Anche la sua storia è popolata da tanti personaggi: Apo, Apa, Lemano, Rassa, Morgan… che, da adulta, ha ormai perso di vista, ma che continuano a vivere nel suo cuore e nei suoi scritti.
In una delle sue interviste Ramondino diceva che Ortese era una delle sue scrittrici preferite e che a lei doveva gran parte delle sue storie. Althénopis - al quale ho dedicato un articolo qui sul blog - è una sorta di autobiografia romanzata di Ramondino, la quale si sofferma sui suoi anni giovanili nella città di Napoli. Sebbene non venga specificato, il luogo è sempre quello, una località di mare, dal nome inventato. Sia Ortese sia Ramondino scrivono del quartiere, della piazza e della marina, tre luoghi molto importanti e fondamentali nella loro vita.
In tutte e tre le scrittrici il Meridione viene rappresentato come terra selvaggia, magica, primitiva. Unico luogo possibile in cui ambientare i loro romanzi che, assieme alla terra meridionale, condividono una ferocia indomabile.
Il porto di Toledo è un romanzo di primavera, di sogni, d’amore, e di mare. Un romanzo sul ricordo di una vita passata, su uomini e donne conosciute in altri tempi, su fatti avvenuti tempo fa. Si percepisce l’autobiografia dell’autrice che va e viene da Napoli, ma che mai scorderà del tutto.
In queste pagine intime, a volte imperscrutabili, misteriose, come la mappa di un tesoro nascosto, vive il cuore di Ortese, e vive anche un pezzo di noi lettori che leggiamo il libro. E ci ricordiamo della “Casa Marine”, di Toledana, Apa e tutti gli altri.
→ Qui puoi ascoltare la puntata di L’altro 900 su Anna Maria Ortese:
https://www.raiplay.it/video/2018/04/L-altro-900-S1E5-Anna-Maria-Ortese-b7f92eb7-9494-4f22-a18b-3f969a2ecb26.html
→ Qui puoi leggere un bellissimo articolo su Ortese:
https://www.doppiozero.com/limpegno-etico-di-anna-maria-ortese
«Il mio nome fu qualche volta Dasa, tal altra Damasa, ma io mi sentivo Toledana, cioè cittadina di Toledo, e così assai spesso, nella mia mente, mi chiamai» (p. 38).
«Leggendo con quella avidità che si può immaginare, non trovando altro che in queste pagine un qualche spiraglio di luce, poco alla volta seppi anch’io, bene o male, scrivere» (p. 28).
«L’espressività di nuovo si appressava in me, e mi pareva - come donna che ti prende per mano - invitarmi con mansuetudine grande a voler superare il ponte che mi aveva allontanata da me medesima. Per tenerezza piansi. Sì, tutto, o se non tutto quasi tutto, infinite fondamentali cose, nella mia vita erano mutate, o stavano per mutare, forse impietosamente, ma la espressività mi assisteva ancora, poteva farsi mia ancora» (p. 297).