La letteratura che guarda
Un breve viaggio da Lo scialle andaluso a Lessico famigliare attraverso lo sguardo delle loro autrici
La primavera è sbocciata da poco in città: sugli alberi, nel primo sole che fa capolino da dietro gli alti palazzi verniciati di giallo e di verde, negli occhi della gente che avanza lentamente per le stradine affollate di Roma.
In questi giorni leggo poco e -ahimè- lo faccio quasi svogliatamente. Nei mesi passati, però, ho avuto la fortuna di incontrare tantissime personagge e personaggi, gli uni diversi dagli altri, donne e uomini che camminano indisturbati sulla carta liscia e profumata, che ridono, piangono e si sentono imbattibili. Il narratore/protagonista dei testi letti mi ha portata, attraverso di sé, nel grande universo della “letteratura che guarda”: una letteratura che percepisce una piccola lacrima rimasta impigliata a delle ciglia, l’insicurezza di due mani che si muovono all’unisono, il movimento orizzontale di una nuvola, il volo opposto di un uccello, le minuscole foglie che, spostate dal vento, paiono danzare.
Su questo riflettevo la volta scorsa: mi piace lo sguardo in letteratura, e mi piace “intrufolarmi” dentro agli occhi di chi sta scrivendo, o raccontando. Mi piace guardare attraverso le loro pupille, le loro mani veloci, maldestre, alle quali non sfugge mai nulla.
In un’intervista per la trasmissione Scrittori per un anno, all’interno di un soggiorno colorato, con fiori, limoni e arance sul tavolo, la poetessa Patrizia Cavalli parla del suo incontro/rapporto con Elsa Morante e nel farlo si serve di una frase che, da allora, mi è rimasta nel cuore e sulla quale mi piace tornare spesso: «Leggendo i suoi libri [di Elsa Morante], vedevo in lei un genere di sguardo che avrei voluto si posasse su di me. Avrei voluto esser guardata, come lei guardava i suoi personaggi».
Chi era davvero Elsa Morante? Nelle foto che abbiamo di lei risalta, per l’appunto, lo sguardo -un po’ obliquo, un po’ timido- di una donna assetata di amore e letteratura, e attenta a esaminare ogni persona che incroci il suo cammino. Nei suoi libri, Elsa si rifà a gente che ha conosciuto nel corso della sua vita; familiari, amici, conoscenti. Ne Lo scialle andaluso, raccolta di racconti pubblicata nel 1963 (dopo L’isola di Arturo e prima de La Storia), ripesca alcuni dei suoi racconti giovanili, contenuti nella sua prima opera letteraria Il gioco segreto, e ne aggiunge di altri, scritti in quegli anni. Essendo stata, Elsa, sempre molto scettica nei confronti dei suoi biografi, mi limiterò a dire che quegli anni furono molto dolorosi, ma al contempo la condussero verso una più maturata consapevolezza di sé e della vita.
![](https://substackcdn.com/image/fetch/w_1456,c_limit,f_auto,q_auto:good,fl_progressive:steep/https%3A%2F%2Fsubstack-post-media.s3.amazonaws.com%2Fpublic%2Fimages%2Fedc9e82a-3000-4ff8-abe3-63d9adc1ed55_450x539.jpeg)
Nel racconto omonimo, che si trova in fondo alla raccolta, Elsa guarda una madre, Giuditta, e il proprio figlio, Andrea. Il topos narrativo madre-figlio è centrale nella produzione morantiana, tanto nei racconti quanto nei romanzi1; si può quasi dire che sia stata lei a inventarlo. Guarda il loro rapporto che evolve, cambia, descrive le loro debolezze e sconfitte, e osserva la metamorfosi incontrollata che li porterà verso la conclusione della storia. Della raccolta ho amato tutti i racconti, tra i miei preferiti -oltre Lo scialle andaluso- segnalo: Il ladro dei lumi2, La nonna3, Il gioco segreto4, Il soldato siciliano5.
Nello stesso anno della pubblicazione dei racconti di Morante, viene pubblicato il romanzo di un’altra donna, editore, redattore e traduttore di casa Einaudi. Come Elsa, anche lei parla poco, nelle interviste muove nervosamente le mani intente a tenere stretta la sigaretta e non guarda mai l’obiettivo. Ha gli occhi piccoli, ma il suo sguardo è penetrante. A Natalia Ginzburg io voglio bene, per quello che scrive e per come lo scrive.
Lessico famigliare è forse il suo romanzo più noto. Natalia si rivolge al lettore fin dall’avvertenza, conducendolo per tutto il libro, mano nella mano.
«Luoghi, fatti e persone sono, in questo libro, reali. Non ho inventato niente: e ogni volta che, sulle tracce del mio vecchio costume di romanziera, inventavo, mi sentivo subito spinta a distruggere quanto avevo inventato. Anche i nomi sono reali. Sentendo io, nello scrivere questo libro, una così profonda intolleranza per ogni invenzione, non ho potuto cambiare i nomi veri, che mi sono apparsi indissolubili dalle persone vere. Forse a qualcuno dispiacerà di trovarsi così, col suo nome e cognome, in un libro. Ma a questo non ho nulla da rispondere. Ho scritto soltanto quello che ricordavo. Perciò, se si legge questo libro come una cronaca, si obbietterà che presenta infinite lacune. Benché tratto dalla realtà, penso che si debba leggerlo come se fosse un romanzo: e cioè senza chiedergli nulla di più, né di meno, di quello che un romanzo può dare. E vi sono anche molte cose che pure ricordavo, e che ho tralasciato di scrivere; e fra queste, molte che mi riguardavano direttamente. Non avevo molta voglia di parlare di me. Questa difatti non è la mia storia, ma piuttosto, pur con vuoti e lacune, la storia della mia famiglia. Devo aggiungere che, nel corso della mia infanzia e adolescenza, mi proponevo sempre di scrivere un libro che raccontasse delle persone che vivevano, allora, intorno a me. Questo è, in parte, quel libro: ma solo in parte, perché la memoria è labile, e perché i libri tratti dalla realtà non sono spesso che esili barlumi e schegge di quanto abbiamo visto e udito.»
(Avvertenza, Lessico famigliare)
Da dietro il suo quaderno, la piccola Natalia, osserva la sua famiglia, ne carpisce i sensi, i movimenti, ascolta le loro parole e poi trascrive tutto sulla pagina bianca con assoluta devozione. Mi ha appassionato leggere di come la letteratura, poco a poco, penetra nella vita dell’autrice: il padre, essendo un uomo di scienza, era solito intavolare discorsi scientifici e ospitava, in casa sua, scienziati e ingegneri. Aveva una sorta di avversione per i letterati e quando si accennava a questioni letterarie egli faceva finta di non capire. Quelle poche cose di letteratura che si raccontavano, entrarono nel cuore di Natalia e lì, piantarono le proprie radici. Cogli anni, quelle radici sono cresciute e hanno dato vita a una pianta rigogliosa, che si è espansa per tutto il suo corpo fino agli occhi. Da lì, credo, passa la linfa dei poeti e degli scrittori. Dagli occhi, dallo sguardo.
Non è semplice tramutare in parole ciò che si guarda, e non è da tutti lasciarsi guardare negli occhi dalla letteratura. Beato chi riesce (ancora) a farlo.
Per maggiori approfondimenti, vi consiglio la lettura dell’articolo di Anna Patrucco, Stabat Mater: le madri di Elsa Morante.
Sebbene io non abbia ancora vissuto un numero d’anni sufficiente per poterlo credere, sono quasi certa di essere stata io, quella ragazzina. (Incipit, Il ladro dei lumi)
Rimasta vedova a quarant’anni, Elena si accorse di essere viva soltanto a mezzo e di trovarsi in un vuoto spietato e senza rimedio. (Incipit, La nonna)
Sulla piazza era sempre ferma una buffa e antiquata carrozza da nolo che nessuno mai noleggiava. Il cocchiere assopito si scuoteva ogni tanto al rintoccare delle ore del campanile e poi riabbassava il mento sul petto. (Incipit, Il gioco segreto)
Nel tempo che gli eserciti alleati, a causa dell’inverno, sostavano al di là del fiume Garigliano, io vivevo rifugiata in cima a una montagna, al di qua del fiume. Un giorno, per la salvezza di persone che amavo, fui costretta ad un breve viaggio a Roma. (Incipit, Il soldato siciliano)