La chimica che diventa racconto
Il sistema periodico di Primo Levi, un autore diviso tra l'amore per la scienza e la letteratura
Il mio professore di chimica era molto alto, aveva lunghi baffi bianchi e gli occhi piccolissimi. Solitamente portava con sé degli occhiali che però non indossava mai, si limitava a tenerli ancorati alla camicia bianca, sotto la giacca blu o nera che gli piaceva indossare. Da quel che ricordo, era l’unico a scuola a indossare il vestito. Quando spiegava muoveva energicamente le mani come se ci fosse qualcosa sotto ai suoi occhi che noi, comuni mortali, non potevamo vedere. Ricordo ancora i momenti prima che arrivasse in classe; i miei compagni lo attendevano come fosse un oracolo pronto a risolvere i problemi di ognuno e poi ne lodavano l’abbigliamento, il modo di porsi, di camminare. Ammetto l’estrema eleganza nei suoi gesti, la padronanza di linguaggio, la precisione e la cura con cui sceglieva le parole da dire. Tutto nella sua persona era ponderato, come un’analisi matematica o un esperimento. Esperimenti che, pur essendo professore di chimica, mai gli ho visto fare. Si limitava a spiegare la teoria, la pratica la lasciava ai laboratori in cui lui non metteva mai piede, chissà perché. A volte scherzava un po’ con i compagni, parlava della sua vita ma senza mai scendere sul personale. Dopodiché, assumendo un’espressione seria -che seria non era mai- cominciava a spiegare. Dall’istante in cui si alzava dalla cattedra per andare alla lavagna, mi trovavo obbligata ad abbandonare il libro che avevo in mano e concentrarmi sulla spiegazione. Lui non mi rivolgeva mai lo sguardo: guardava tutti, tranne me. Io avevo una media pessima nelle discipline scientifiche; infatti mi dava un senso di sollievo questo non essere guardata. D’altro canto, però, mi faceva sentire invisibile, come se in quella classe di trenta persone attente e ben capaci io non esistessi. C’erano compagni che inciampavano in tutte le materie, altri che eccellevano in ognuna. Poi c’ero io, che arrancavo nella matematica e nella fisica e non riuscivo a comprendere per niente la chimica. Io stavo a metà, né dentro né fuori. Questa cosa mi faceva vergognare, tant’è che quando entrava il professore con i baffi bianchi e il portamento elegante mi sentivo in soggezione, come se lui avesse già identificato in me la colpa di non riuscire a comprendere. Una colpa che, credevo, mi avrebbe perseguitato per tutta la vita.
All’università decisi di sbarazzarmi di quel fardello. Scelsi una facoltà umanistica lasciando addietro le formule e gli esperimenti. Sebbene in molti mi avessero avvertito sulla difficoltà di trovare lavoro con la letteratura e le frasi scritte, avevo deciso di seguire la mia passione. Sarebbe stato meglio impegnarsi un po’ di più in qualcosa che non ci piace, dicevano. Una ragazza che conoscevo fece così: si iscrisse a una facoltà scientifica nonostante non sapesse nulla di formule, dicendomi che per lei era importante trovare lavoro, la passione poteva coltivarla in altri momenti.
Io mi sentivo male se, anche per un giorno, trascuravo la mia passione. Se ad esempio mi trovavo in un posto affollato e dovevo attendere a lungo, ed ero senza un libro, il mio cuore cominciava a battere forte dentro la gabbia toracica e mi veniva il capogiro. Infatti oggi, prima di uscire, porto sempre con me un libro, per non restare sola in momenti come quelli.
Non so perché questo ricordo mi sia tornato in mente proprio adesso; in fondo il mio professore di chimica e quei momenti in classe sono distanti anni luce da me. Sarà stato il fatto che nel giorno del mio venticinquesimo compleanno due mie amiche mi hanno regalato Il sistema periodico di Primo Levi, e alcuni ricordi giovanili di quel periodo sono riaffiorati nella mia mente. Ricordi di una ragazza che si chiedeva il perché dovesse stare in bilico e non potesse invece sentirsi parte di un tutto. Esser guardata per quello che era, e non per quello che gli altri avrebbero voluto che fosse. E non parlo solo della chimica.
Leggendo Levi e la sua raccolta di racconti mi è successa una cosa alquanto curiosa: con la sua scrittura riservata e lineare, è riuscito a trasportarmi in quel suo mondo che mi spaventava così tanto. E più andavo avanti, più ero curiosa di conoscerlo attraverso i suoi occhi. Questo libro ha scavato in me stessa ricordandomi ancora una volta l’amore che nutro per la letteratura, e di come la letteratura, molto spesso, ci può sorprendere, trasformando (persino) una formula chimica in parole.
Leggendo poi l’epigrafe del romanzo - È bello raccontare i guai passati - ho creduto fosse doveroso ritornare al mio passato e ricordare ciò che è stato, nel bene e nel male.
Il libro
Il lettore, a questo punto, si sarà accorto da un pezzo che questo non è un trattato di chimica: la mia presunzione non giunge a tanto. Non è neppure un’autobiografia, se non nei limiti parziali e simbolici in cui è un’autobiografia ogni scritto, anzi, ogni opera umana: ma storia in qualche modo è pure. È, o avrebbe voluto essere, una microstoria, la storia di un mestiere e delle sue sconfitte, vittorie e miserie, quale ognuno desidera raccontare quando sente prossimo a conchiudersi l’arco della propria carriera, e l’arte cessa di essere lunga (Carbonio, p. 212).
In una Torino fredda e paralizzata dalla guerra, Primo Levi si muove cauto, con gli occhi socchiusi e i capelli bianchi come la neve. Studia chimica all’università, una disciplina che ama con tutto se stesso, proprio come si amano due persone quando cominciano a frequentarsi: prima si osservano, passando a rassegna le mani, gli occhi, le labbra, poi studiano i loro corpi a vicenda, si esplorano come due goffi astronauti che cercano di trovare una sorta di gravità fuori dalla Terra. Levi ama la chimica come si amano due persone; dolcemente ma con altrettanta passione. E assieme alla chimica, ama anche la letteratura.
Io sono un anfibio, un centauro, sono diviso in due metà: una è quella della fabbrica, sono un tecnico, un chimico; un’altra invece è totalmente distaccata dalla prima, ed è quella nella quale scrivo, rispondo alle interviste, lavoro sulle mie esperienze passate e presenti. Sono proprio due mezzi cervelli (tratta dal documentario mandato in onda su Sky Arte, che potete trovare anche alla fine dell’articolo)
È a questi due amori infiniti che dedica un libro, o meglio una raccolta di racconti intitolata Il sistema periodico. Il nome risale alla famosa tavola periodica di Mendeleev, un chimico russo con la barba lunga e gli occhi di ghiaccio che un giorno, nel suo laboratorio, ideò una curiosa tavoletta sulla quale riportò i nomi di vari composti chimici: argon, fosforo, cromo, argento…
Il sistema periodico di Mendeleev, che proprio in quelle settimane imparavamo laboriosamente a dipanare, era una poesia, più alta e più solenne di tutte le poesie digerite al liceo: a pensarci bene, aveva perfino le rime! (Ferro, p. 40)
I ventuno racconti
In questi ventuno racconti il lettore si muove in punti di piedi, come chi rientra a casa sul tardi e per non svegliare chi sta dormendo cerca di fare il più piano possibile. Entrare in questo libro è rendersi leggeri, mantenere in alto le braccia per non cadere e trovare un proprio equilibrio. Ciò che si può trovare al suo interno è prezioso ed estremamente fragile, come il tesoro nel romanzo di Dumas ritrovato da Edmond Dantès.
Il lettore entra a conoscenza di alcuni eventi che caratterizzano la vita di Primo Levi. Come ogni altra vita, anche la sua è stata costernata da dolori, amarezze, lacrime che tuttavia lo scrittore riesce a trasformare in dei bellissimi racconti. Levi ha dato vita a delle storie silenti che rischiano di passare inosservate nel caos del mondo: solo a pochi, infatti, è data l’opportunità di riconoscerle in mezzo alla folla di passanti, nelle fermate affollate del treno, nelle piazze gremite di gente. A pochi è dato il privilegio di accorgersi di quel piccolo dettaglio che si muove tra queste pagine e sfugge agli occhi degli altri esseri umani; un impercettibile segno, una luce, un respiro, una goccia di pioggia.
Anziché racconti, queste piccole storie sembrano esperimenti, annotazioni, ricordi, quasi delle lettere. Viene da chiedersi infatti: a chi stava scrivendo Levi? A un eventuale pubblico lettore? O più semplicemente a se stesso? Affinché i suoi ricordi non si disperdessero e le sue parole restassero ben delineate nell’aria, nello spazio?
Sicuramente la chimica gli ha donato solide certezze, ma è stata la scrittura a consolarlo, a indicargli la via d’uscita da quel pozzo senza fine. Lui stesso, nelle varie interviste che si possono recuperare sul web, afferma di essere tornato vivo dal campo di sterminio con il solo scopo di scrivere. Testimoniare ciò che è stato per non dimenticare, per testare sulla carta se quei segni possono davvero sopravvivere.
«Nel lager io scrivevo, sebbene fosse proibito», dice in un’intervista. Il suo sguardo è malinconico e sembra essere altrove. La sua persona è ferma, immobile dietro la cinepresa, mentre la sua mente è chissà dove, in uno spazio che pochi hanno visto e sperimentato.
Di cosa parlano i racconti de Il sistema periodico?
In Argon Levi rispolvera la storia dei suoi antenati. Come un afferrato archeologo, va alla ricerca di veri e propri scatoloni nella sua casa natale, all’interno dei quali era contenuta la storia della sua famiglia e della vita che c’è stata prima di lui1.
Idrogeno ha un posto speciale nel mio cuore. Qui Levi racconta di un episodio avvenuto durante la sua giovinezza, un periodo che mi è molto caro soprattutto quando sono gli scrittori a raccontarlo. Il personaggio principale del racconto è un suo amico di gioventù, Enrico, del quale l’autore scrive di essere affascinato. Enrico mi è apparso come un ragazzo molto sicuro di sé e con le idee ben chiare; un personaggio che tutti abbiamo conosciuto durante la nostra adolescenza:
Enrico mi raccontò che al paese di suo nonno i pescatori usano prendere i bachi da seta, quando sono già grossi, e, desiderosi di imbozzolarsi, si sforzano ciechi e goffi di inerpicarsi su per i rami; li prendono, li spezzano in due con le dita, e tirando i tronconi ottengono un filo di seta, grosso e rozzo, resistentissimo, che usano poi come lenza. Il fatto, a cui non esitai a credere, mi appariva ad un tempo abominevole ed affascinante: abominevole per il modo crudele di quella morte, e per il futile uso di un portento naturale; affascinante per lo spregiudicato e audace atto d’ingegno che esso presupponeva da parte del suo mitico inventore (p. 25, Idrogeno).
Alcuni personaggi che compongono i racconti assomigliano a dei fantasmi ai quali Levi vuole dare dei contorni ben definiti. Ad esempio, in Zinco c’è Rita, uno dei primi amori dello scrittore, che siede accanto a lui durante gli esperimenti; anche lei molto sicura di sé, ma timida e con uno sguardo triste, quasi invisibile2. L’altra donna invece è Giulia, conosciuta durante il periodo milanese, che viene raccontata in Fosforo. Giulia, scrive Levi, era una sorta di strega, si recava spesso dalle indovine e le piaceva leggere la mano alle persone. Inoltre, era una donna molto temeraria ma quando in città cominciava a tuonare, si faceva piccola piccola. Allo stesso modo, aveva paura dei piccoli insetti furtivi che trovava nella sua camera o nei quali si imbatteva al parco di giorno. Giulia fu un amore irrealizzabile per l’autore, svanito troppo presto per le strade di Milano.
Giulia si sposò pochi mesi dopo, e si congedò da me tirando su lacrime dal naso e facendo minuziose prescrizioni annonarie alla Varisco. Ha avuto molte traversie e molti figli; siamo rimasti amici, ci vediamo a Milano ogni tanto e parliamo di chimica e di cose sagge. Non siamo malcontenti delle nostre scelte e di quello che la vita ci ha dato, ma quando ci incontriamo proviamo entrambi la curiosa e non sgradevole impressione (ce la siamo più volte descritta a vicenda) che un velo, un soffio, un tratto di dado, ci abbia deviati su due strade divergenti che non erano le nostre (Fosforo, p. 118).
Mi accorgo che, mentre scrivo di Levi e di questi racconti, il mio cuore batte velocemente, segno che mi sono innamorata dell’autore e della sua scrittura. Starei ore e giornate intere a discorrere di questo e molto altro, ma ho già scritto abbastanza e forse è tempo di chiudere qui questa storia.
Quindi ti saluto lettore, e ti dò appuntamento al prossimo “incontro letterario”!
Se vuoi approfondire la figura e la produzione di Primo Levi, puoi dare un’occhiata al sito e al video sottostante. Buona lettura e buon ascolto!
- https://www.primolevi.it/it
Ancor oggi, inspiegabilmente, i piani più alti degli armadi restituiscono suoi preziosi cimeli: scialli di trina nera trapunti di pagliette iridate, nobili ricami di seta, un manicotto di martora, straziato dalle tignole di quattro generazioni, posate d’argento massiccio segnate con le sue iniziali: come se, dopo quasi cinquant’anni, il suo spirito inquieto ancora visitasse la nostra casa (Argon, p. 17)
Infine, tremando per l’emozione, infilai il mio braccio sotto il suo. Rita non si sottrasse, e neppure ricambiò la stretta: ma io regolai il mio passo sul suo, e mi sentivo ilare e vittorioso. Mi pareva di aver vinto una battaglia, piccola ma decisiva, contro il buio, il vuoto, e gli anni nemici che sopravvenivano (Zinco, p. 35).
Ciao! Non conoscevo questa raccolta di racconti (pur avendo già letto Levi nel più noto "Se questo è un uomo", e "La tregua" a seguire), e il tuo post mi ha incuriosito tantissimo. Metto in lista, lo leggerò sicuramente. Da fan dei racconti poi non posso farmelo scappare ❤️