Il profumo del mare di Althénopis
Infanzia, donne e profondo sdraricamento nel romanzo d'esordio di Fabrizia Ramondino
Nel 2008, in una giornata di fine giugno, Fabrizia Ramondino muore nel mare di Gaeta mentre fa il bagno. L’acqua, che da sempre è stata il suo elemento, se la porta via.
Il profumo che invade la pagine del suo primo romanzo, Althénopis, è un profumo buono: un misto di sale marino che rimane sulla pelle e che vorresti trattenere per sempre, specialmente nei momenti in cui la nostalgia è latente. Lo stesso profumo rimasto attaccato al corpo di Fabrizia che non se n’è mai andato, simbolo che decreta la sua discendenza dal mare: dal mare era nata e al mare doveva tornare.
Althénopis è un romanzo bello che mi è rimasto nel cuore; non solo per la scrittura potente e magistrale della sua autrice, ma per il sentimento di comprensione che mi ha avvolta. Anche io, leggendo queste pagine, ho vagato nei meandri della mia anima bambina e ho rivissuto alcuni momenti di quelle stagioni che sembravano non volessero finire mai1. Durante la sua infanzia, Fabrizia si troverà a vagare da un posto all’altro, da una casa a un’altra, e pare che, nel corso della narrazione, il lettore cammini assieme a lei per quelle strade, adesso strette, adesso larghe, adesso ripide, adesso lineari, che in un modo o nell’altro portano sempre lì: al mare.
Prima di scrivere Althénopis, e di diventare una scrittrice agli occhi della gente, Fabrizia camminava per le vie della sua città natale con i romanzi di Elsa Morante e Carlo Emilio Gadda sottobraccio, assieme a un dizionario un po’ stropicciato che sfogliava in ogni occasione: al caffè, in piazza, sul lungomare. In realtà, i dizionari erano due: uno monolingue in italiano e l’altro spagnolo-tedesco, tedesco-spagnolo2. L’epigrafe che precede la prima parte del libro è tratta, per l’appunto, dalla più importante opera in lingua spagnola, Don Chisciotte di Cervantes. Mentre l’epigrafe della terza parte (per me la più sofferta da leggere) dal Requiem tedesco di Brahms. Ciò a cui aspirava Fabrizia era trovare una lingua perfetta e quindi mischiava registri, spostava le parole, invertiva l’ordine del soggetto con quello del complemento, quello del predicato con quello del soggetto, fino a creare un pastiche simile a quella che Carlo Emilio aveva delineato anni prima.
L’amore per Elsa Morante (e Anna Maria Ortese) fu un amore travolgente che la investì fin dalla nascita. Nel suo romanzo d’esordio, la scrittrice riprende alcune immagini morantiane: la bellezza del mare che toglie il respiro, il rapporto con la madre e le donne di casa, il bisogno di solitudine che porta a riflettere su se stessi e sul mondo. Queste immagini, intessute nella letteratura moderna, vengono modellate dalle mani di Fabrizia, riposte al punto giusto senza sbavature o inceppi, e con assoluta precisione. Il romanzo che ne viene fuori è un ricordo sbiadito di infanzia, di donne che si mischiano ad altre donne, e di quel profondo senso di sdraricamento che è proprio di tutti quegli esseri viventi che nascono con una profonda sensibilità attaccata alla loro pelle, come il sale marino nei giorni d’estate.
Donne, madri, figlie
In un luogo circondato dal mare, con le montagne alte che vanno a finire a strapiombo sull’acqua argentea, prende vita la prima parte del romanzo. Santa Maria del Mare è il luogo (dal nome immaginario) dove Fabrizia bambina passa le sue giornate assieme ad altri suoi coetanei e amici. E dove osserva, senza fermarsi un istante, le vite di quelle persone anonime, solitarie e silenziose che si aggirano per strada o fanno capolino dalla finestre di casa.
Non è una casualità se questa prima parte comincia con un capitolo dedicato alla nonna: la donna che ha portato nel grembo la madre, la quale a sua volta ha dato la vita a Fabrizia. La nonna è la prima di una lunga serie di donne che popolano queste pagine; gli uomini, se ci sono, stanno in secondo piano, o addirittura vengono prosciugati dalle stesse donne.
Le donne della famiglia sembrano essere l’una la continuazione dell’altra, come se il braccio di una confluisse nel braccio di un’altra, la gamba destra dell’una alla sinistra dell’altra: un’intrecciarsi di corpi femminili, corpi guasti e insidiosi, che poi si curano a vicenda:
“I loro mariti tentavano, almeno agli inizi del matrimonio, di allentare i legami con tutte quelle donne, perché non riuscivano forse più a districare i tratti dell’amata da quelli delle altre e pareva loro di essere come inghiottiti da quella promiscua mescolanza.”
In disparte, lontana da occhi indiscreti, se ne sta la nonna. Nessuno riesce a vederla veramente eccetto Fabrizia che la osserva piano piano, poggiando il suo sguardo sui vari pezzi che compongono la sua persona. Ad esempio, “le sue braccia bianche e ancora vigorose, seppure fortemente solcate di azzurre e arterie sporgenti”. La nonna passa buona parte delle sue giornate in cucina che, agli occhi della piccola Fabrizia, diventa un posto magico.
“La nonna in quel dopoguerra, quando non aveva più la sua casa, si svegliava con una voglia improvvisa e precisa di cucinare qualcosa: le crocchette, ad esempio, o i millefoglie, o i cannoli alla siciliana, o solo il pancotto. Quando questa furia la prendeva nessuno poteva fermarla, e di tutto faceva grandi quantità, come vivesse sempre nella grande casa circondata da figli, nipoti, sorelle, parenti, frequentatori. Il suo pancotto a me pareva un miracolo e lo mangiavo di nascosto con lei in un angolo buio, in un’ora deserta della casa, come una leccornia rubata. Faceva anche con grande ardire, ché erano tempi di carestia e mancavano gli ingredienti, certe creme favolose, ma che agli altri davano disgusto.”
La nonna è la terza di cinque sorelle: veste sempre di nero ed è solita sedersi sul bordo del divano accerchiata dalle altre donne e i vari nipoti, come se da un momento all’altro dovesse abbandonare quella comitiva e rifugiarsi altrove, lontana da tutti. La seconda sorella si chiama Celeste, seguita dalla quarta, Zia Ada, alla quale fa capolino la più piccola delle cinque, zia Egle. Quest’ultima ha gli occhi viola che la fanno apparire come una principessa di un regno ultraterreno. La primogenita, invece, si chiama Anita, ma data la malattia che la costringe a letto non partecipa mai a quelle riunioni familiari.
Accanto alla nonna e alle sue quattro sorelle, si delinea un’altra figura di donna: la madre. Questo personaggio è tanto affascinante quanto complesso: avvolta da un velo di mistero, rimane quasi un’ombra nel corso di tutta la narrazione fino alla sua evanescenza nelle ultime pagine. A differenza della nonna, la madre non sembra stare in quel posto in carne e ossa; e mentre la prima coltiva un suo religioso silenzio, la seconda fa rumore anche stando in silenzio: la sua presenza così forte sembra la causa di violente tempeste.
“L’odore della mano della nonna, di incenso, olio, polvere, cera e fiori, mi calmava; la mano di nostra madre invece era inquietante, pareva sempre cancellare «sciocchezze», lavare via qualcosa, fresca e odorosa di sapone. […] Nostra madre poi, malgrado quel sangue, non aveva un corpo, aveva i gesti, ma soprattutto aveva i «pensieri», aveva mal di testa. Dai «pensieri» e dalle sue incombenze non poteva venire quel sangue. Forse dal mal di testa, o il mal di testa dal sangue, ma il mal di testa era anche collegatosi ai «pensieri».”
Nel personaggio della madre mi è capitato di rivedere l’impronta di Anna, figura morantiana di Menzogna e sortilegio. Il male che affligge Anna ha a che vedere con il mal d’amore per il cugino Edoardo, al contrario la madre di Fabrizia rimane perennemente a letto a causa della mancanza di danaro e delle molte possibilità che preclude a se stessa e ai suoi figli. Fabrizia lo intuirà solo in seguito, quando comincerà a crescere e sarà costretta a lasciare quel luogo magico e incantato di Santa Maria del Mare.
C’è un momento, verso la metà della prima parte, in cui la piccola Fabrizia assieme ai suoi amici di infanzia lasciano la terra per rifugiarsi sui tetti delle case. Lassù, a stretto contatto col cielo, ci si sente invulnerabili, e si arriva a credere che tutto è possibile. Da lì, un giorno, Fabrizia vede la madre. La osserva attentamente, come non ha mai fatto nella vita, per imprimerla bene in mente:
“A volte vedevamo nostra madre passare piccola piccola piccola per la piazza, avrei voluto volare ad abbracciarla, ma ero paralizzata dall’altezza, e quando la vedevo entrare dal tabacchino, la immaginavo nel negozio come al solito, innervosita e ombrosa perché non aveva trovato nessuno di noi che le andasse a comprare le sigarette; ma di nuovo, quando usciva nella strada e traversava la piazza, mi pareva un essere piccolo e indifeso, lontanissimo da me, come fosse in un altro mondo, irraggiungibile, come dopo un irreparabile evento si sognano i morti, e volevo correre e volare dal tetto ad accertarmi della consistenza del suo corpo e a richiamarla da un mondo di ombre.”
La figlia vuole riscattare la madre, farle da ombrello, risollevarla, cucirla, recuperare i pezzi rotti come si fa coi vasi che cadono e si rompono: avrei voluto farmi libro perché mi leggesse, e mi mettevo a chiacchierare intensamente al suo fianco, per distrarla, passando di palo in frasca, ma ero desolatamente consapevole che non un libro potevo essere, ma solo un esiguo libriccino, e il mio chiacchierio si spegneva.
“Quel muoversi nel mondo sono io”
Quando l’infanzia finisce, qualcosa dentro di noi si spezza irrimediabilmente ed è impossibile ricostruirlo; ormai è perduto per sempre. Quindi ci si deve mettere di santa pazienza, senza alcuna fretta, e guardarsi dentro. Guardarsi dentro per capire, cercare di comprendersi e comprendere il mondo che ci circonda e che cambia anche lui, con noi.
L’infanzia di Fabrizia giunge al termine alla fine della prima parte, quando è costretta a lasciare la vecchia vita per rifugiarsi all’interno di una nuova. Quella nuova casa che la attende non ha a che vedere solamente con la classica costruzione di cemento, ma anche con il nuovo corpo che cambia man mano che lei cresce:
“A volte mi osservavo la schiena nel tentativo vano di sorprendermi com’ero veramente e di carpire, da dietro, l’indecifrabile enigma che mi stava davanti sotto le sembianze del mio volto. Allo stesso modo della partoriente che subito chiede «Com’è il bambino?» e alla quale il medico o l’infermiera scioccamente rispondono «È un maschio» oppure «È una bella femminuccia», mentre la donna solo vuol sapere in quell’attimo se è proprio un bambino, se è sano, così, quando mi specchiavo, la forza delle convenzioni mi spingeva a chiedermi se ero bella, mentre la vera non formulata domanda era «Chi, che cosa sono?» È vano rivolgere queste domande agli specchi, ma a questa domanda a volte parevano rispondere gli specchi della zia, quando involontariamente mi ci sorprendevo riflessa di spalle, perché allora non ero un’immota immagine leziosa e scimmiesca, ma un gesto, un fare qualcosa: portare la tazzina, cercare un sandalo sfuggito e rinfilarlo con un sapiente gesto del piede, chinarmi a raccogliere un fazzoletto, sicché potevo dirmi sorpresa: «Quel muoversi nel mondo sono io».”
Dall’osservare la gente del suo paese, Fabrizia diventa osservatrice di se stessa e del proprio corpo. Guardandosi scopre di essere non un’immagine ferma, ma un movimento continuo che le permette di esistere. E quel movimento, nel suo caso, è una penna che si muove su un foglio, mossa dalla mano di una scrittrice “marina” che ha scritto un romanzo meraviglioso.
La scrittrice sarà costretta a un nomadismo continuo, dovuto alla guerra, ai terremoti, al carattere e forse anche a un destino stilistico che la farà stare sempre nello spazio sintattico del «tra»: tra le lingue, tra le città, tra le scritture, tra le persone, tra le tensioni politiche e sociali, tra le generazioni, tra le classi sociali; sempre alla ricerca di un sentiero chiaro da percorrere; sempre pronta a scorticarsi la pelle di dosso, e allo stesso tempo senza mai negarsi, anche nei momenti peggiori, a una relazione con il mondo e con gli altri e soprattutto con il mare.
(Silvio Perrella, prefazione Althénopis)
“Quelle lunghe stagioni infantili, che parevano eterne ma sospese nella perenne attesa d’uno scompiglio, d’uno sgombero, d’una partenza, d’un prossimo esilio.” Natalia Ginzburg, dalla quarta di copertina di Althénopis.
Fabrizia Ramondino nasce a Napoli, ma vive la prima infanzia a Maiorca, dove il padre è console; nel 1954 compie il suo primo viaggio in Germania, dove poi ritornerà in diverse epoche della sua vita (Biografia, terza di copertina Althénopis).