Il giardino in Corso Ercole I d'Este, a Ferrara
Il romanzo di Giorgio Bassani: un viaggio tra i ricordi del passato e la nostalgia del presente
Quando ho sentito parlare per la prima volta del romanzo di Giorgio Bassani, frequentavo il quinto superiore e, già da allora, amavo la letteratura. Al tempo però, non leggevo molti classici, mi limitavo semplicemente a studiarne la trama e l’epoca storica in cui erano stati scritti. Nessun docente in particolare ci spronava alla lettura, e quando ci approcciavamo a un qualsiasi autore, in classe scendeva il silenzio perché spesso questi grandi nomi ci incutevano paura. Conoscendoli meglio, avremmo potuto constatare che gli scrittori sono esseri fragili tanto quanto noi.
Un giorno, durante una lezione di letteratura, fu pronunciato il nome di Giorgio Bassani e il suo più celebre romanzo, Il giardino dei Finzi-Contini. La mia immaginazione si soffermò a lungo su quel luogo in cui si svolgeva l’intera storia, il giardino, e da quel momento, cominciai a chiedermi cosa ci fosse davvero all’interno di quel posto tanto misterioso che dava il titolo all’opera. Se Bassani aveva deciso di intitolare il suo libro proprio menzionando il giardino, allora questo doveva essere molto importante. Tanti anni prima, sempre a scuola, avevo letto Il giardino segreto di Frances Hodgson Burnett, che mi aveva lasciato addosso una strana sensazione, e tra i tanti aspetti del romanzo, mi era rimasto impresso proprio il giardino. C’era qualcosa in quel luogo segreto che mi richiamava a sé, ma ancora oggi non so dire cosa fosse.
La mia conoscenza con Bassani, dunque, avvenne proprio lì, in quella piccola aula al secondo piano dell’ex istituto magistrale, da una finestra da dove si poteva ammirare una vecchia quercia dai rami cadenti; forse la stessa che si ergeva nel giardino della famiglia dei Finzi-Contini, in Corso Ercole I d’Este, a Ferrara.
Come ho già detto, i classici ci incutevano un po’ di timore a scuola, infatti non approfondii ulteriormente l’autore e il suo romanzo, almeno fino a pochi mesi fa. L’occasione mi si presentò lo scorso giugno, mentre mi stavo recando in università per seguire l’ultima lezione del secondo semestre. Nel corridoio, poco prima di entrare in aula, ascoltavo in audiolibro proprio il romanzo di Bassani. Era il periodo in cui si cominciava a studiare per la sessione estiva, quindi avevo poco tempo e poca voglia di leggere un libro, così avevo pensato di optare per gli audiolibri.
Ricordo ancora le sensazioni di quella giornata: faceva caldo, il sole entrava a strapiombo nel corridoio ferendo il passaggio degli studenti. Infatti chi passava per di lì, portava le mani agli occhi per proteggersi dalla luce accecante. Io me ne stavo seduta, gli occhi sbarrati e forse pronti alle lacrime, perché ciò che stavo ascoltando mi aveva toccato nel profondo, come un piccolo e sottile bisturi che ti scava dentro: il dolore è lieve ma senti che c’è qualcosa che preme per entrare e dal quale non puoi sottrarti, devi lasciarlo fare.
Allora non ci pensai due volte. Uscita da lezione, mi precipitai verso l’edicola fuori le mura della cittadella e acquistai quella copia un po’ consunta che vedevo spesso passando per di lì. Nessuno infatti l’aveva acquistata, e subito pensai che mi stava aspettando, sentendo che finalmente, dopo tanti anni, era arrivato il momento.
Acquistai il libro a giugno, ma cominciai a leggerlo solo a novembre. Tra la sessione d’esame, l’estate, il mare, sentivo che la lettura del romanzo di Bassani doveva avvenire in un altro momento differente da quello che stavo vivendo allora. A fine novembre allora, mi immersi tra le pagine, e ne uscii qualche settimana dopo, a inizio dicembre, meravigliata e stravolta da ciò a cui avevo assistito.
Ricordi di una domenica al mare
La storia che si delinea dietro le duecento pagine è quella di una numerosa famiglia ebrea, i Finzi-Contini, raccontata attraverso lo sguardo di un ragazzino, anche lui ebreo. Sebbene entrambe le famiglie, quella dei Finzi-Contini e quella del narratore, condividano la stessa provenienza sociale, si possono notare fin da subito delle differenze. Il narratore non manca di sottolineare che i vari componenti della famiglia dei Finzi-Contini sono relegati nella loro solitudine; infatti, mentre le altre famiglie mantengono una vita sociale attiva, i Finzi-Contini preferiscono rintanarsi tra le mura della loro casa. Dunque la solitudine è centrale nel romanzo e caratterizza non solo le persone, ma anche i luoghi abitati da essi; a partire dal loro palazzo, passando per il giardino, fino al mausoleo di famiglia che viene descritto nelle prime pagine.
Chissà come nasce e perché una vocazione alla solitudine (p. 21)
La storia, infatti, non parte dal passato, ma prende forma nel presente, a seguito di una passeggiata che il narratore fa da adulto con degli amici fuori Roma:
Da molti anni desideravo scrivere dei Finzi-Contini - di Micòl e di Alberto, del professore Ermanno e della signora Olga - e di quanti altri abitavano o come me frequentavano la casa di corso Ercole I d’Este, a Ferrara, poco prima che scoppiasse l’ultima guerra. Ma la spinta, l’impulso a farlo veramente, l’ebbi soltanto un anno fa, una domenica d’aprile del 1957 (Incipit Il giardino dei Finzi-Contini)
Durante il percorso in macchina, si decide di fare una piccola sosta presso un cimitero etrusco, uno tra i più antichi della zona. L’io narrante, che per tutte le prime pagine rimane silente, comincia a ricordare i Finzi-Contini, e da quei ricordi impasta una storia, acciuffando le parole che corrono veloci nella sua testa.
Alcuni dei suoi ricordi sono sporadici, altri sono rimasti fissi nella sua mente; come quando al liceo scopre di essere stato rimandato in matematica e quindi comincia a pensare alla fuga e al futuro lontano dalla famiglia. In quella disperazione fanciullesca, arriva però una luce che rischiara, sebbene per un breve periodo, la vita del ragazzo. La luce è incarnata da Micòl Finzi-Contini, uno dei personaggi più ambigui e irrisolti della letteratura italiana, nonché il grande amore del narratore. Sarà proprio il ricordo di Micòl, più di tutto, a fargli compagnia, anche quando di lei sarà svanita ogni cosa.
Il vento che porta via tutto
Verso la metà del romanzo, c’è un momento in cui il protagonista si ritrova a una cena tra parenti. È il giorno di Pasqua, e come in molte altre famiglie ci si dà appuntamento attorno a una tavola imbandita di cibi e bevande varie. Durante quella cena avviene la folgorazione: ogni componente della famiglia comincia a sgretolarsi dinanzi agli occhi del ragazzo. Egli li osserva, uno a uno, e di ognuno ne predice la fine. Qui subentra anche quel senso di colpa sottile che si insinua nel suo cuore: si sente infatti non degno di cenare assieme a tutti loro che, a differenza sua, non sopravvivranno al destino ingiusto. Li vede morire, uno a uno, fino a diventare cenere.
Guardavo infine me, riflesso dentro l’acqua opaca della specchiera di fronte, non diverso dagli altri, anch’io già un po’ cauto, preso anche io nel medesimo ingranaggio, e tuttavia riluttante, non ancora rassegnato. Io non ero morto, mi dicevo, io ero ancora ben vivo! Ma allora, se ancora vivevo, a che scopo, come potevo restare lì, insieme con gli altri? Perché non mi sottraevo subito a quel disperato e grottesco convegno di spettri, o almeno non mi turavo le orecchie per non sentire più parlare di discriminazioni, di meriti patriottici, di certificati di arianità, di quarti di sangue, per non udire più la gretta lamentela, la monotona, grigia, inutile trenodia che consanguinei e parenti intonavano sommessi intorno a me? (p. 187)
Finita la cena, sull’uscio di casa, accade un altro fatto surreale. Durante i saluti, si alza un vento improvviso che spazza via ogni cosa. Questo vento è più forte delle voci delle persone, tant’è che si fa fatica a sentire cosa dice l’uno e cosa dice l’altro, sebbene ci si trovi a poca distanza.
Entrambi gli episodi rimandano alla malinconia e, soprattutto, alla solitudine che investe la storia. La forza del romanzo di Bassani sta proprio in questo: il coraggio di mostrarsi per come si è, di mettere nero su bianco il male estremo, la solitudine che non culla ma divora, come la morte. Ogni essere umano non potrà mai decifrare tutti i segni che giungono a lui in questa vita, e che spesso predicono la sua fine. L’unico modo per sopravvivere a tutto ciò - e questo ce lo insegna Bassani - è scrivere.
Scrivere una storia di una famiglia, un amore ormai perduto, e il rimpianto di non esser riuscito a fare di più.
Adesso che ho finito il libro, mi è rimasta addosso una strana malinconia che non riesco a togliermi di dosso. Mi piacerebbe saperla spiegare a parole ma non credo di riuscirci. So però che avrei voglia di dormire abbracciata al libro per tutta la notte, per non lasciarlo solo.
E forse adesso riesco a capire il perché del fascino di quel giardino. Perché è un porto sicuro, dove la solitudine e il dolore svaniscono per un po’, giusto il tempo di essere felici.
Domenica, queste tue parole mi colpiscono nel profondo, ti svelo che anche per me Il giardino dei Finzi-Contini ha avuto un ruolo fondamentale: una delle prime letture che ha avuto il potere di farmici affezionare, di indurmi a pensare alla lettura come una profonda e ed infinita riflessione di vita. Lo lessi il secondo anno di liceo per la scuola; ora, ammetto di ricordare se non a grandi linee la trama, ma ricordo le sensazioni che ho avuto modo di provare, anche se, come te, non sono sicura di poter riportare a parole. Credo che una rilettura sarà un’esperienza emozionante! 🤍