Il corpo delle madri e il loro margine in letteratura
"L'amore molesto" di Elena Ferrante, il primo romanzo delle Cronache del mal d'amore
Riesco a immaginarla: Elena Ferrante, seduta alla scrivania e intenta a scrivere. Davanti a lei una finestrella dà su un cortile interno di un’alta palazzina circondata da tante altre, coi muri smussati dal tempo, pieni di crepe, che sembrano voler cadere giù da un momento all’altro. Quelle stesse crepe che vanno a insinuarsi nella sua scrittura graffiante. Le sue dita si muovono velocemente sul computer per non far sfuggire alcuna sillaba, per non dimenticare alcuna parola. Se perde il filo del discorso, elimina la frase e ricomincia da capo.
Tutto questo perché quello che sta scrivendo è il suo primo romanzo. Conta di scrivere poche pagine, ma dense: il lettore deve sentire ciò che ha da dire, lo deve sentire sopra ogni strato della pelle, come un pugno in pieno viso. Elena non rilegge, ma continua nel suo intento. Il sole è già calato e sta per fare buio, il suo volto è illuminato dalla sola luce del pc. Se si alzasse per accendere la luce della stanza, perderebbe il filo del discorso, e quel lungo gomitolo rosso che deve districare si arrufferebbe ancora di più. E questo no, non può permetterselo. Allora decide che le basta quella sola luce.
L’amore molesto fu pubblicato nel 1992 da un’autrice senza volto; Elena Ferrante era solo uno pseudonimo. Fin dalla sua pubblicazione, il romanzo non ottenne il successo sperato e il nome dell’autrice passò in sordina per un lungo periodo.
In quel tratto di mare che chiamano Spaccavento
Mia madre annegò la notte del 23 maggio, giorno del mio compleanno, nel tratto di mare di fronte alla località che chiamano Spaccavento, a pochi chilometri da Minturno. Proprio in quella zona, alla fine degli anni Cinquanta, quando mio padre viveva ancora con noi, d’estate affittavamo una stanza in una casa contadina e trascorrevamo il mese di luglio dormendo in cinque dentro pochi roventi metri quadri. Ogni mattina noi bambine bevevamo l’uovo fresco, tagliavamo verso il mare tra canne alte per sentieri di terra e di sabbia e andavamo a fare il bagno.
L’amore molesto di cui scrive Elena Ferrante è l’amore di una madre verso una figlia, e viceversa. Secondo l’autrice non c’è amore più vero, più doloroso e anche più crudele, di questo tipo di legame.
La storia nasce in un pezzo di mare, vicino a una piccola località balneare chiamata Spaccavento. È qui che viene ritrovato il corpo di Amalia. Quest’ultima ha vita breve nel romanzo, eppure ritornerà molto spesso, come uno spirito che non ha il coraggio di lasciare la sua casa terrena.
A raccontare la storia è Delia, figlia di Amalia. (Delia mi ricorda, per certi versi, Lenù. Mentre Amalia, la versione invecchiata di Lila).
Delia parte dal presente, da quel corpo mosso lentamente dalle onde, per poi tornare alla sua vita passata in un piccolo quartiere di Napoli. Inizia a sbrogliare quel gomitolo lungo e intricato che è stata la vita di sua madre.
Di Amalia sappiamo che, al momento del ritrovamento, indossava un reggiseno in pizzo, che Delia non le aveva mai visto indossare. Sappiamo anche che lei stessa, a Napoli, amava ricamare e, molto spesso, si cuciva i vestiti da sola. La stoffa ritorna spesso nella storia: Delia vuole assomigliare così tanto alla madre che arriva persino a indossare i suoi vestiti dopo la sua scomparsa.
Forse perché solo in questo modo si può sentire finalmente unita a una donna tanto distante da lei? Oppure perché attraverso quel gesto, vuole dare a quei vestiti un’altra forma, un altro corpo di donna, fino a rompere definitivamente con quello di suo madre?
Accadeva dopo che negli anni, per odio, per paura, avevo desiderato di perdere ogni radice in lei, fino alle più profonde: i suoi gesti, le sue inflessioni di voce, il modo di prendere un bicchiere o bere da una tazza, come ci si infila una gonna, come un vestito, l’ordine degli oggetti in cucina, nei cassetti, le modalità dei lavaggi più intimi, i gusti alimentari, le repulsioni, gli entusiasmi, e poi la lingua, la città, i ritmi del respiro. Tutto rifatto, per diventare io e staccarmi da lei. D’altro canto non avevo voluto o non ero riuscita a radicare in me nessuno. Tra qualche tempo avrei perso anche la possibilità di avere figli. Nessun essere umano si sarebbe staccato mai da me con l’angoscia con cui io mi ero staccata da mia madre soltanto perché non ero riuscita mai ad attaccarmi a lei definitivamente. Non ci sarebbe stato nessun più e nessun meno tra me e un altro fatto di me. Sarei rimasta io fino alla fine, infelice, scontenta di quello che avevo trascinato furtivamente fuori dal corpo di Amalia. Poco, troppo poco, il bottino che ero riuscita a rapirle strappandolo al suo sangue, al suo ventre e alla misura del suo fiato, per nasconderlo nel corpo, nella materia bizzosa del cervello. Insufficiente. Che fard ingenuo e sbadato era stato cercar di definire «io» questa fuga obbligata da un corpo di donna, sebbene ne avessi portato via meno che niente! Non ero alcun io. Ed ero perplessa: non sapevo se quello che andavo scoprendo e raccontandomi, da quando lei non esisteva e non poteva ribattere, mi facesse più orrore o più piacere.
Il luogo
Nei romanzi di Elena Ferrante, il quartiere di Napoli sembra assumere sempre le sembianze di un umano e abbracciare tutte le case - o tenerle in una morsa. Chi esce da quel quartiere poi sarà sempre costretto a farvi ritorno, per un motivo o per un altro. Delia ritorna dopo la morte di sua madre perché ha bisogno di risposte e perché vuole ricostruire, passo dopo passo, la storia di una donna che è stata a suo fianco per tanto tempo, ma della quale si accorge di conoscere così poco.
Quando arriva nel rione dove era cresciuta, comprende che tutto è cambiato irrimediabilmente: le case popolari hanno lasciato spazio a grandi palazzi simili a quelli che ci sono nei film americani, i volti della gente sono invecchiati. Soltanto il cavalcavia è rimasto uguale: il tunnel che sua madre oltrepassava ogni giorno - lo stesso che Lila si era messo in testa di voler percorrere per raggiungere il mare.
Il rione di Delia mi ha ricordato Lila e Lenù: un’immagine che Elena Ferrante non riesce a staccarsi dalla testa e alla quale ritorna continuamente nei suoi romanzi - forse perché deve tanto a Napoli.
L’aria paesana che gli era appartenuta, con quegli edifici biancastri a quattro piani costruiti in mezzo alla campagna polverosa, si era trasformata attraverso gli anni in quella di una periferia itterica sopraffatta dai grattacieli, strozzata dal traffico e dai serpenti dei treni che costeggiavano le case rallentando. Piegai subito a sinistra, verso un cavalcavia a tre tunnel, quello centrale bloccato dai lavori di ristrutturazione. Ricordavo un unico interminabile passaggio, deserto e continuamente terremotato dai treni dello smistamento che mi passavano sulla testa. Feci invece non più di cento passi in una penombra puzzolente d’orina, lentamente, stretta tra una parete che grondava larghe bave d’umido e un guardrail polveroso che mi proteggeva dalla corsa fitta delle automobili. Il cavalcavia era rimasto lì fin da quando Amalia aveva sedici anni. Lei doveva percorrere quei tunnel freschi e ombrosi, quando andava a consegnare i guanti. Mi ero sempre immaginata che li portasse nello spazio che mi stavo lasciando alle spalle, in una vecchia fabbrica con tettoia a tegole che ora mostrava l’insegna della Peugeot. Ma certamente non era così. Del resto cosa era così? Non esisteva più gesto o passo che, rimasto tra le pietre e l’ombra, le stesse di allora, potesse aiutarmi.
MoranteFerrante
Sulla quarta di copertina del romanzo di Ferrante, il giornalista Antonio D’Orrico scrive «La massima narratrice italiana dai tempi di Elsa Morante». Anche io, quando leggo Elena Ferrante, non posso che pensare a Elsa Morante.
Quando ho letto L’amore molesto mi è tornato in mente Lo scialle andaluso, raccolta di racconti pubblicata nel 1963; in particolare l’ultimo racconto omonimo dove Morante scrive del rapporto tra una madre e il proprio figlio maschio.
I due protagonisti sono Giuditta e Andrea (madre e figlio). Andrea prova un sentimento quasi morboso nei confronti della madre, ma decide di staccarsi completamente da lei nel momento in cui si rende conto che Giuditta non si cura più di lui, ma è completamente assorbita dalla sua carriera di danzatrice nei teatri. Il ragazzo, quindi, quasi per ripicca, entra in seminario con l’intento di diventare sacerdote e scordarsi per sempre di quella madre che non l’ha voluto.
I due si ritrovano a fine del racconto e Giuditta, accortasi del grave sbaglio commesso, prega Andrea di spogliarsi della tunica da prete -e dello scialle andaluso che lo stesso indosserà alla fine- e di riunirsi con lei. Da parte sua, la donna lascerà la carriera da danzatrice e vestirà come «una vera e propria madre».
Anche nel racconto morantiano, l’elemento degli abiti è molto forte:
Il colore proprio agli abiti delle madri è il nero, o, al massimo, il grigio o il marrone. I loro abiti sono informi, giacché nessuno, a cominciare dalle sarti delle madri, va a pensare che una madre abbia un corpo di donna. I loro anni sono un mistero senza importanza, che, tanto, la loro unica età è la vecchiezza. Tale informe vecchiezza ha occhi santi che piangono non per sé, ma per i figli; ha labbra sante, che recitano preghiere non per sé, ma per i figli. E guai a chi pronunci invano, davanti a questi figli, il nome santo delle loro madri! guai! è offesa mortale!
In una lettera del 30 giugno 1953, il poeta Umberto Saba informa Elsa Morante di aver letto il suo “raccontino” (riferendosi allo Scialle andaluso) e di averlo trovato molto bello. Prosegue dandole un piccolo consiglio più da amico, che da letterato; un consiglio che credo possa risuonare anche nelle pagine del romanzo di Ferrante. Le scrive così:
Tu non ti sei identificata affatto (come credi) al fanciullo Andrea, ti sei identificata E PROFONDAMENTE alla madre siciliana. È in questo eterno rapporto tra la madre e il fanciullo che devi cercarti; e devi cercarti dalla parte della madre (sottolineato nella lettera)1.
Era di questo che aveva bisogno Delia, la protagonista di Ferrante? Riconoscersi nella madre Amalia? Instaurare con lei un rapporto diverso da quello che aveva cercato di costruire fin dalla sua infanzia?
Forse sì.
E anche tu Elena: finalmente hai sciolto i nodi del tuo libro, ora sei pronta a cucire l’abito.
L’amata. Lettere di e a Elsa Morante, a cura di Daniele Morante, Einaudi, Torino 2012.