Essere pietra in un mondo di carta
Victor Hugo e la sua Notre-Dame di Parigi tra segreti, anfratti bui e misteriosi, e amore. Tanto amore.
La prima immagine che mi torna in mente se ripenso al romanzo di Victor Hugo, è l’immagine di una pietra. O meglio, un blocco di pietre, come quelli che servirono ai grandi scultori della storia per creare le loro opere d’arte. Ci si sbaglia quando viene detto che la scrittura non implica una forza fisica: la scrittura richiede tanta forza, sia fisica che mentale, e questo romanzo ne è la prova. Notre-Dame de Paris è stato realizzato dalla pietra con assoluta precisione e con una cura dei dettagli strabiliante. Nulla, in questo libro, è lasciato al caso o al destino.
La mia prima annotazione sulle sue pagine è stata “Essere pietra”. Mi trovavo su un treno diretto a casa per le vacanze pasquali e, durante la sosta di mezz’ora a Napoli, ho cominciato a leggere la parte in cui viene descritto il rapporto viscerale tra Quasimodo e la cattedrale (forse la parte più bella del libro). Accanto a me c’erano tante persone: qualcuno dormiva, dei ragazzini ridevano tra di loro, una bambina si spostava da una parte all’altra della carrozza. Non c’era nessuna cattedrale, nessun campanaro, eppure ciò che leggevo man mano si materializzava dinanzi a me, come se ciò che era scritto sulla pagina volesse prender vita. In quella carrozza di seconda classe, ho continuato voracemente la lettura, sgranando gli occhi, sobbalzando a tratti e pensando che Notre-Dame de Paris è un romanzo che non può lasciare impassibile il lettore.
Lo scrittore e la genesi del romanzo
Tutto ebbe inizio nella Parigi del diciannovesimo secolo, quando il giovane Victor Hugo decise di visitare la maestosa cattedrale gotica di Notre-Dame. Durante la visita, per caso o fortuna, si perse tra gli anfratti della chiesa e, in quegli angoli bui e semi deserti, scoprì una strana parola appartenente alla lingua greca, incisa sulle mura di pietra. Questa parola si fece strada tra i suoi pensieri, fino a insinuarsi anche all’interno dei suoi sogni. Così, alla luce di poche candele, il giovane Victor cominciò a sparpagliare fogli di carta sulla scrivania, libri d’arte gotica e manuali medievali. Si procurò anche un taccuino dove iniziò a fare degli schizzi di alcuni personaggi. Nel primo foglio che gli capitò tra le mani scrisse la parola che aveva scovato nella cattedrale con la convinzione che, solo grazie a essa, sarebbe riuscito nella sua impresa. La parola era ANAΓΚΗ e stava a significare fatalità, destino1.
Ogni personaggio del romanzo fu, in qualche modo, segnato da quell’iscrizione che, in seguito, scomparve misteriosamente dalla cattedrale. Hugo fece ritorno a Notre-Dame, ma al posto della parola vi trovò il muro immacolato, come se questa non fosse mai esistita, o come se qualcuno avesse voluto cancellarla per sempre.
«Così, a parte il fragile ricordo consacratole qui dall’autore di questo libro, non rimane più nulla oggi della parola misteriosa graffita nella buia torre di Notre-Dame, nulla del destino ignoto che tanto malinconicamente riassumeva. L’uomo che ha scritto quella parola sul muro è stato cancellato, da molti secoli ormai, dal novero delle generazioni, la parola è stata anch’essa cancellata dal muro della chiesa, e anche la chiesa forse tra non molto sarà cancellata dalla faccia della terra. È su quella parola che è stato scritto questo libro» (Avvertenza, Notre-Dame de Paris).
È su questa parola che prese forma il romanzo; su di essa gettò le sue fondamenta, si modellò, e divenne ciò che, ad oggi, appare al lettore: una cattedrale di pietra con i suoi innumerevoli segreti. La stessa cattedrale fu concepita dall’autore come personaggio dell’opera, l’artefice della scintilla letteraria, la signora di Parigi. Nel capitolo interamente dedicato a essa, Hugo scrive: «Questa chiesa centrale e generatrice è tra le antiche chiese di Parigi una sorta di chimera; ha la testa di una, le membra dell’altra, il torso di un’altra; qualcosa di tutte2».
Le madri buone e cattive
«Madre! gridò con un indicibile accento di terrore, madre mia! vengono! difendetemi!
Sì amore mio, ti difendo! rispose la madre con voce spenta e, tenendola stretta tra le braccia, la coprì di baci.
Entrambe così a terra, la madre sopra la figlia, erano uno spettacolo di pietà.
«Cattedrale madre» è la mia seconda annotazione all’interno del romanzo. La maternità che si trova in esso è in qualche modo atipica, e incarnata da tre personaggi in particolare: la cattedrale, Paquette e Frollo.
Dopo aver trovato grazia presso l’arcidiacono, Quasimodo cresce all’interno di quelle mura facendosi amici immaginari tra le statue, imparando a memoria ogni angolo e anfratto e apprendendo una lingua tutta sua. La cattedrale accoglie nel suo grembo il gobbo, come la madre accoglie nel suo il bambino. Sembra quasi che sia stata la stessa cattedrale a partorirlo. Si prende cura di lui inconsapevolmente, facendosi dimora, proteggendolo dalla gente che lo vede come un mostro.
Col tempo, s’era formato uno strano e intimo legame tra il campanaro e la chiesa.
[…]
Notre-Dame era stata successivamente per lui, via via che cresceva e si sviluppava, l’uovo, il nido, la casa, la patria, l’universo.
[…]
E così, a poco a poco, sviluppandosi sempre in grembo alla cattedrale, vivendoci, dormendoci, non uscendone quasi mai, subendone in ogni momento la pressione misteriosa, arrivò a somigliarle, a incrostarvisi, per così dire, a farne parte integrante. I suoi spigoli sporgenti si incastravano, ci si passi questa espressione, negli angoli rientranti dell’edificio, e ne sembrava non solo l’abitatore, ma addirittura il contenuto naturale. Si potrebbe quasi dire che ne aveva preso la forma, come la lumaca prende la forma della sua chiocciola. Quella era la sua dimora, il suo buco, il suo involucro.
[…]
Del resto, non solo il suo corpo sembrava essersi conformato alla cattedrale, ma anche il suo spirito. In che stato fosse quell’anima, che pieghe avesse contratto, che forma avesse assunto sotto quell’involucro nodoso, in quella vita selvatica, è cosa difficile da determinare.
La cattedrale non fa caso al suo aspetto, alla gobba, all’unico occhio iniettato di sangue, alla colonna vertebrale arcuata, ma alle sue movenze impacciate e alle innumerevoli dimostrazioni d’amore. Quasimodo accarezza la cattedrale come fosse una persona reale, e sospira nel semplice atto di ammirarla come si sospira davanti al viso dell’amata. Così impara a fidarsi delle sue pietre, rimanendo con lei, e ascoltando le sue grosse campane che risuonano maestose in tutta Parigi.
«Ciò che amava più di ogni altra cosa nell’edificio materno, ciò che risvegliava la sua anima e le faceva dispiegare le povere ali che teneva così miseramente ripiegate nella sua caverna, ciò che lo rendeva talvolta felice, erano le campane. Le amava, le accarezzava, parlava con loro, le capiva. […] Eppure erano state proprio quelle campane a farlo diventare sordo, ma le madri spesso amano di più il figlio che più le ha fatte soffrire.»
Adesso lasciamo la cattedrale e spostiamoci nella grande e animata piazza di Parigi. Nel libro sesto, al capitolo III3, una donna del popolo comincia a raccontare la storia di Paquette la Chantefleurie. All'epoca del fatto, Paquette aveva solo diciotto anni; si guadagnava da vivere grazie ai soldi che gli uomini le davano dopo notti d'amore, fino a che non partorì una bambina che chiamò Agnès. La piccola era bellissima e sembrava destinata a cose grandi: aveva gli occhi più grandi della bocca, e i capelli ricci e neri.
Un giorno, in città, arrivò una carovana di gitani dall'Egitto e molti parigini accorsero ai loro accampamenti per farsi leggere la mano e predire il futuro. Anche Paquette ci andò, portandosi dietro Agnès e mostrandola agli zingari come fosse un tesoro prezioso. La giovane e ingenua donna voleva sapere se la sua bambina sarebbe diventata imperatrice, regina, sovrana. L'indomani, per malasorte, fato o destino, la piccola scomparve, così come gli zingari che, in quello stesso giorno, lasciarono Parigi dissolvendosi nell'aria. Paquette perse la testa, e da quel momento tutto in lei cominciò a cambiare: gli occhi divennero bui, la faccia le si intorpidì, le vene smisero di pompare sangue al cuore e al cervello. Divenne una cosa morta che si aggirava per le straducole della città gridando: «Chi mi restituirà la mia bambina, sarò la sua serva, la serva del suo cane, e potrà mangiarmi il cuore, se vuole»4.
Quel dolore straziante per aver perso la sua bambina, la portò a rinchiudersi all’interno di una piccola cella scavata al pianterreno, nel muro di una vecchia casa: il buco dei ratti. La donna passava le sue giornate pregando e maledicendo Dio, e inveendo contro ogni persona passasse per di lì. Ne odiava una in particolare, perché appartenente alla stessa razza di chi le aveva rubato la figlia: la gitana Esmeralda.
Non era né una donna, né un uomo, né un essere vivente, né una forma definita; era una figura; una sorta di visione in cui si intersecavano il reale e il fantastico, come l’ombra e il chiarore.
[…]
Si sarebbe detto che s’era fatta pietra con la prigione, ghiaccio con la stagione.
Questa storia, di cui non ripoterò il finale, mi ha spezzato il cuore. È una storia inaspettata, profonda, che racconta di una donna disperata -della quale il lettore può sentire il dolore sulla pelle- e di una figlia dispersa, che vorrebbe solo un po’ d’amore.
La terza e ultima madre è forse la più atipica, perché Claude Frollo è un prete e non ha partorito Quasimodo; ma dal primo momento in cui il piccolo è stato posto nel letto di legno della chiesa di Notre-Dame, decise di tenerlo con sé. Frollo nutre un amore sconfinato per lo studio, le lettere, la chimica. Non conosce l’amore verso gli esseri umani e mai avrebbe pensato di prendersi cura di una creatura vivente. È Quasimodo a insegnarli l’amore ma, al contempo, il campanaro è anche oggetto del suo più grande dolore.
Frollo è stata una buona madre, ma è noto a tutti che il cuore umano può contenere diverse sfaccettature: col tempo può evolvere, ingigantirsi o rimpicciolirsi e, a seconda di come lo nutriamo, esso prende forma.
Battezzò il figlio adottivo, e lo chiamò Quasimodo, sia che volesse ricordare così il giorno in cui lo aveva trovato, sia che volesse sottolineare attraverso quel nome fino a che punto la povera creatura fosse incompleta e appena abbozzata.
L’amore che (di)strugge
Notre-Dame de Paris è un libro che parla d’amore in tutte le sue sfaccettature. E lo fa, rappresentando anche il più crudele degli amori: quello della sopraffazione, del tradimento, dell’egoismo. Tutto ciò mi ha fatto ricordare che l’amore, in realtà, ha una sola faccia: è un amore che vuole bene, che non si sottomette, che cammina passo dopo passo accanto a te, ti guida, ti sorregge e viene a riprenderti quando cadi. Un amore che ti protegge, sempre. Che non si sceglie. Perché così come un uomo, si può amare la pietra di una cattedrale; gli alti palazzi parigini; il cielo, la luna e le stelle; una piccola capra di nome Djali e un amuleto che proteggi a costo della vita. Si può amare una persona che non c’è più e che vorresti fosse accanto a te, e che in alcuni giorni la pensi così forte, che ti sembra di avercela accanto e di non averla mai persa realmente.
Io di Notre-Dame voglio ricordare questo amore.
Un piccolo consiglio per quando inizierete a leggere il romanzo: così come quando iniziate ad amare qualcuno, vi servirà un po’ di pazienza, molta sensibilità e tanta empatia. Avrete bisogno di un cuore intero -se lo avete spezzato dovrete fare attenzione- poiché durante la lettura si spezzerà in tanti piccoli pezzi. E poi, una volta terminata, vi servirà un pizzico di forza per poterlo ricomporre.
Comunque, in qualsiasi modo decidiate di sfogliare questo libro, vi auguro buon viaggio.
La parola greca sarebbe Ananke, e nella religione antica si riferiva alla dea del destino, della necessità e del fato.
p. 120, edizione Feltrinelli, 2021.
Il capitolo porta il titolo di Storia di una cialda al lievito di mais, ma il titolo originario era Storia del figlio della ragazza di strada.
p. 227, edizione Feltrinelli, 2021.